Recensione Contraband (2012)

Spinto dal desiderio o dalla necessità di omologarsi alle caratteristiche del genere, Kormakur ha ricostruito l'intera vicenda attraverso un preciso e metodico utilizzo di forme retoriche in cui la criminalità si fonde sempre con il desiderio di rivincita e le necessità familiari.

Quando l'illegalità non paga

Il presente di Chris Farraday è tranquillo e ordinato. Una moglie, due figli e una ditta d'installazione di allarmi caratterizzano lo scorrere quasi monotono delle giornate, ma la sua vita non è sempre stata così. Figlio di un contrabbandiere di New Orleans, Chris ha ereditato la "professione" paterna, dimostrando di avere una passione smisurata per il pericolo e un'attrazione naturale per l'illecito. Un talento, questo, che, nonostante l'arresto del padre e le promesse fatte alla sua Kate, è costretto a rispolverare per salvare proprio il destino della famiglia. A riportarlo suo malgrado nel giro è un cognato giovane e inesperto che, dopo aver tentato di contrabbandare senza successo una grossa quantità di cocaina, si ritrova a dover risarcire il boss Tim Briggs di ben 700.000 dollari in sole due settimane. In palio, naturalmente, c'e' la sua stessa vita. L'unico in grado di vincere questa corsa contro il tempo sembra essere Chris che, preoccupato soprattutto per l'incolumità di moglie e figli, s'imbarca senza indecisione su un cargo diretto a Panama con un piano ben preciso: procurarsi 10.000.000 di dollari in banconote false e contrabbandarle in America.


Ad Hollywood i remake sembrano aver riscosso sempre un certo successo, soprattutto dal punto di vista produttivo. In modo particolare negli ultimi anni l'attenzione delle grandi major si è concentrata su prodotti dell'Europa del nord che, una volta acquistati e rivisitati secondo un gusto meno minimalista e più spettacolare, non sempre hanno avuto la capacità di conquistare i favori di critica e botteghino. Sotto la spinta di questa tendenza sono stati omaggiati autori come la danese Susanne Bier (Non desiderare la donna d'altri è stato trasformato nel 2009 in Brothers da Jim Sheridan), Niels Arden Oplev (il suo Uomini che odiano le donne viene rivisto e corretto da David Fincher) e per ultimo Oskar Jonasson che, pur non essendo particolarmente conosciuto al grande pubblico, ha avuto il merito di costruire uno dei thriller più costosi della storia del cinema islandese e di aver attratto l'attenzione del mercato statunitense. Per questo motivo il suo Reykjavik-Rotterdam è stato trasformato nel più orecchiabile ed evocativo Contraband, diretto dall'attore e regista Baltasar Kormákur che, dopo aver recitato nella versione originale, questa volta si posiziona dietro la macchina da presa nel tentativo di realizzare il perfetto prodotto hollywoodiano. Il risultato, però, è un film che, proprio per le sue caratteristiche dichiaratamente americane, tende a essere impersonale e privo di qualsiasi originalità.

Spinto dal desiderio o dalla necessità di omologarsi alle caratteristiche del genere, Kormakur ha ricostruito l'intera vicenda attraverso un preciso e metodico utilizzo di forme retoriche in cui la criminalità si fonde sempre con il desiderio di rivincita e le necessità familiari. In questo modo l'utilizzo dello slang dei bassifondi, la rappresentazione di un eroe imperfetto e dell'amico fedele ma non troppo hanno trasformato Contraband in un action thriller basato interamente su dei trucchi narrativi mal celati che lo spettatore non solo riconosce, ma anticipa fin troppo facilmente. E non basta certo un susseguirsi di colpi di scena alternati da inseguimenti e sparatorie per mitigare la sensazione un po' frustrante di trovarsi di fronte ad un prodotto già realizzato in passato e con maggior cura narrativa. Così, nonostante dimostri di conoscere piuttosto bene l'evoluzione cinematografica del genere, Kormakur non riesce a staccarsi da questa o a utilizzarla in modo personale.

Anzi, dopo aver messo da parte senza troppi complimenti le atmosfere più ambigue e meno indulgenti del film di Jonasson, si serve di una regia priva di sorprese per mettere in scena una sceneggiatura fin troppo indifferente nei confronti dei suoi protagonisti. E' per questo motivo che Mark Wahlberg, Ben Foster e Caleb Landry Jones s'inseriscono all'interno della narrazione come figure sfocate, personaggi in cerca di una collocazione e di un background che il regista sembra non aver minimamente considerato. Fotogramma dopo fotogramma dimostra di non essere riuscito a utilizzare le loro caratteristiche in modo funzionale rispetto alla storia e, ancor peggio, di non aver minimamente valutato la possibilità. La sua attenzione, invece, è concentrata esclusivamente sulla tenuta di un ritmo alto e costante che, pur rappresentando un elemento essenziale per la buona riuscita di un action thriller, senza il sostegno di un cast consapevole e ben indirizzato non può creare altro oltre noia e un pizzico di sconforto.

Movieplayer.it

3.0/5