Nicolas Vanier presenta a Roma Belle & Sebastien

In questi primi giorni del Festival di Roma, in occasione della presentazione del suo nuovo film, abbiamo potuto incontrare il regista, scrittore e documentarista francese, che ci ha svelato genesi e curiosità di un'opera attesa da molti spettatori italiani.

In occasione della presentazione, al Festival del Film di Roma, nella sezione Alice nella Città, del suo Belle & Sebastien, abbiamo potuto fare due chiacchiere col regista Nicolas Vanier: cineasta, scrittore, documentarista e grande amante dei paesaggi naturali, Vanier con questo film ha portato sullo schermo una storia amata da almeno due generazioni di giovani spettatori. Nell'incontro, il regista ci ha parlato della difficoltà nel confrontarsi con una storia tanto nota, ma anche delle influenze del suo lavoro passato nella realizzazione del film, nonché del valore pedagogico che una storia del genere può avere nel 2013.

Con questo film lei riporta a casa una storia nata in Francia, solo successivamente adattata in un anime di successo. Come si è comportato nel portarla sul grande schermo? Ha tenuto conto anche della serie giapponese?
Nicolas Vanier: La base della scrittura è stata il romanzo televisivo, ovvero la serie dal vivo del 1965. L'ho rivista per prepararmi, e nel guardarla ho cercato di comprendere la chiave del suo enorme successo: a partire dagli appunti che avevo preso, ho cercato di elaborare la mia storia, una storia diversa, fatta per il cinema ma che cercava di mantenere quegli stessi fondamenti. Volevo da un lato fare in modo che chi conosceva la serie ritrovasse quelle atmosfere, i personaggi, gli umori e la nostalgia; dall'altro, che le nuove generazioni trovassero una storia moderna e fatta per il cinema.

Cécile Aubry, autrice dei romanzi originali e della serie del 1965, è scomparsa da poco. Ha avuto l'occasione di conoscerla? Com'è nato il coinvolgimento di suo figlio Mehdi El Glaoui, il Sebastien originale?
Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscere Cecile quand'era in vita, ho solo guardato le cose che aveva fatto in televisione. Ho cercato di coinvolgere Mehdi fin dall'inizio, perché pensavo che lui fosse il vero proprietario di questa storia. Lui non era esente da un certo grado di inquietudine, perché ci teneva che le atmosfere originali fossero rispettate. Una volta, però, che ha letto la sceneggiatura, ne è stato subito soddisfatto.

Quale messaggio, con questo film, è possibile dare agli spettatori più giovani?
Uno degli elementi che contribuì al successo della serie, secondo me, è il senso e l'importanza della libertà. Oggi, in Francia, il sistema di regole fa sì che spesso le colonie estive per ragazzi chiudano, a causa di una loro regolamentazione eccessiva. I bambini di oggi hanno una vita fin troppo normata e regolamentata. Libertà e rispetto per l'ambiente sono i temi principali di questo film.

Billy Wilder disse: mai fare un film con un cane, e mai fare un film con dei bambini. Lei ha fatto entrambe le cose in un solo film. E' stato difficile?
Ai due precetti di Wilder aggiungerei: mai girare un film al 100% in esterni e in montagna! Fare un film con un bambino di 7 anni impone una serie di limiti: un ragazzo di quell'età non mantiene l'attenzione per tempi troppo lunghi. Inoltre, quella particolare razza di cane, il Pastore dei Pirenei, è particolarmente complicato perché molto indipendente. In me, però, è prevalsa la passione, e la passione è stata proprio ciò che mi ha guidato, dove forse altri registi avrebbero rinunciato. La troupe è la stessa del mio film precedente, che era stato girato in Siberia a temperature glaciali.

Lei è anche viaggiatore ed esploratore. Quanto questa sua influenza ha influito sul suo lavoro di regista?
L'aspetto più interessante è stato quello di raccontare, per la prima volta, una storia di finzione con attori professionisti: questo non mi era successo nei due film precedenti. Ho provato un piacere enorme nell'affidarmi a professionisti in grado di capire le sensazioni che volevo trasmettere sullo schermo, aprendo un ventaglio di possibilità.

Quanto c'è invece, nel film, del suo occhio da documentarista?
Dirigere un documentario è indubbiamente diverso dal girare un film di finzione: qui c'è una messa in scena e una direzione di attori, che sono elementi assenti nel documentario. Tuttavia, l'attenzione per la natura, e in particolare per la montagna, sono sicuramente simili.

Lei, in definitiva, si sente più scrittore, regista, documentarista, viaggiatore, o un po' tutte queste cose insieme?
Io sono sempre, al 150%, quello che sto facendo in quel momento: quando giro un film sono un regista, quando faccio una spedizione con i miei cani da slitta sono un viaggiatore, quando scrivo sono uno scrittore, ecc. E' come se io fossi in perfetta sintonia col tipo di universo collegato a quello che faccio.

Come mai, a distanza di tanti anni, ha deciso di riportare questa storia anche sulla pagina scritta, traendo dal film un nuovo libro?
L'immagine e la scrittura sono due linguaggi diversi, anche se complementari. L'emozione che trasmette un film è diversa da quella che trasmette un libro: quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, ho capito che una sua riscrittura in forma di romanzo sarebbe stata un'evoluzione naturale, nonché complementare.

Com'è nata la collaborazione con Tcheky Karyo? La sua scelta nel ruolo del "nonno" si è rivelata molto indovinata.
E' stata una scelta naturale ed immediata. Mentre scrivevo la sceneggiatura, ho subito pensato che fosse lui l'attore più adatto per interpretare quel ruolo, e ho subito sperato che fosse disponibile a farlo.

Come mai la scelta di reambientare la storia durante la Seconda Guerra Mondiale?
Nella storia originale, la trama parallela era quella del contrabbando: l'ambientazione in quel periodo storico mi ha permesso di creare un collegamento con un tema simile, riassunto nel motivo fondamentale del passaggio: lì era passaggio di contrabbandieri, qui di clandestini in fuga. Inoltre, quello della Seconda Guerra Mondiale è stato un momento fondamentale nella storia delle montagne francesi.

L'alchimia che era necessaria tra il cane e il bambino è stata verificata prima che l'interprete venisse scelto nei provini, o dopo?
Sicuramente non dopo. Volevo replicare la chiave del successo della serie, che era la presenza scenica e lo sguardo del piccolo protagonista. Così, la produzione ha messo ingenti mezzi nella scelta del ragazzino. Io ho visto 200 dei 2400 provini iniziali, su cui già era stata fatta una selezione; di questi 200 ragazzini, 12 sono stati poi messi in contatto con dei cani: tramite videocamera, ho osservato la capacità di questi ragazzini di relazionarsi con gli animali, e anche la reazione degli animali stessi. Questa ulteriore selezione ha ridotto la scelta a 4 candidati, tra i quali alla fine è stato scelto Félix Bossuet. In seguito, il rapporto tra Felix e il cane è stato davvero simbiotico: lui era l'unico, sul set, a poterlo toccare, il rapporto che i due hanno stabilito è stato simile a quello che si vede sullo schermo.