Recensione Isole (2011)

Al terzo lungometraggio della carriera, il cineasta abruzzese dimostra coerenza stilistica e soprattutto un'attenzione sempre maggiore allo sviluppo narrativo e alla caratterizzazione dei personaggi.

Naufragar m'è dolce...

Ivan è un immigrato clandestino che lavora in una frazione delle isole Tremiti come operaio. Malvisto dai colleghi per la sua solerzia e sfruttato dal padre perdigiorno, si trova costretto a rimandare il rientro sulla terraferma perché non possiede i soldi per il traghetto. La permanenza obbligata si rivela ancora più difficile in seguito ad un'aggressione subita. Ormai allo sbando, Ivan riesce a salvarsi grazie all'intervento di Martina, una giovane donna che dopo la tragica morte della figlia ha smesso di parlare ed è considerata per questo la matta del paese. Martina lo porta dal suo tutore, don Enzo, il parroco di quella piccola comunità, tornato a casa dopo un lungo periodo in ospedale per una malattia che lo ha reso invalido. Assillato dalla sorella Wilma che lo assiste solo per motivi di interesse, don Enzo scandalizza tutti decidendo di assumere Ivan come badante, accogliendolo nella propria abitazione come aveva già fatto con Martina. La convivenza a tre non è affatto facile, soprattutto per i continui attacchi di Wilma e per il timore che quella tenera relazione tra lo straniero e la ragazza muta possa in qualche modo diventare pericolosa. Ma non c'è nulla di violento in quel sentimento che si esprime senza parole e con grande pudore; un sentimento talmente forte nella sua delicatezza da sciogliere perfino un uomo burbero come Enzo.


Di fronte ad un'opera come Isole, diretta da Stefano Chiantini, si capisce come per fare un buon film non servano troppi elementi e anche come una storia lieve, appenna sussurrata, possa diventare qualcosa di più grande. Presentato con un buon riscontro all'ultimo Festival di Toronto, Isole è un lavoro essenziale costruito sulla coppia formata da Ivan Franek e Asia Argento (muta per quasi tutta la durata della pellicola) e sul terzo incomodo, il don Enzo interpretato con la consueta bravura da Giorgio Colangeli. E nella sua semplicità riesce a dire qualcosa di valido su temi 'impossibili' come amicizia e amore e cioè che sono gli incontri a poter cambiare la storia di un essere umano, purché si sia disposti a rischiare. E' un cinema 'leggero' quello di Chiantini che alle grandi rivelazioni preferisce i piccoli movimenti dei corpi, uno sguardo furtivo, una carezza inattesa o una smorfia di disgusto. In uno scenario di rara bellezza, quello delle isole al largo di Foggia, i tre personaggi principali combattono la loro battaglia contro anni di convinzioni sbagliate e si affrettano a rompere i vecchi rapporti di forza in nome del rispetto e del riconoscimento reciproco. Tralasciando ogni facile parallelismo tra l'isolamento affettivo di Ivan, Martina ed Enzo e quello geograficamente imposto da un luogo senza confini, è pur vero che la bellezza selvaggia delle Tremiti li obbliga a vivere in una dimensione meno razionale e più incerta, in cui la parola serve fino ad un certo punto.

E in questo trittico di umili ad emergere con forza è la figura di Enzo, così lontano da quelle pacificanti figure ecclesiastiche che ci vengono proposte al cinema o in tv. Un uomo sanguigno che deve fare i conti con la malattia, simbolo chiaro della propria finitezza, e con la freddezza di una sorella che dietro ad un atteggiamento compassionevole nasconde aridità e violenza. Nell'eccessiva e fastidiosa ripetizione di situazioni che programmaticamente trasformano Wilma (Anna Ferruzzo) nella cattiva e che appesantiscono il fluire delle immagini, la sceneggiatura mostra qualche segno di cedimento; ma il cuore della storia, l'avvicinarsi di un uomo e una donna che in quel rapporto ritrovano sé stessi è pienamente centrato. Chiantini segue Martina, Ivan e don Enzo senza preconcetti, lasciandosi affascinare da ogni gesto e liberandosi dal vincolo di un lieto fine posticcio riesce a regalare ad ognuno la piccola speranza di una vita rinnovata dagli affetti ritrovati. Al terzo lungometraggio della carriera, il cineasta abruzzese dimostra coerenza stilistica e soprattutto un'attenzione sempre maggiore allo sviluppo narrativo e alla caratterizzazione dei personaggi; non tanto in termini di originalità, quanto per la schietta empatia che si prova seguendo le loro vicende. In un film dove tutto ciò che succede non è mai macroscopico, in cui sono i silenzi ad avere un peso notevole, i protagonisti della storia esercitano un immediato fascino su chi guarda, una complicità inattesa che risulta l'elemento in più di questo Isole.

Movieplayer.it

3.0/5