Recensione La vita che vorrei (2004)

Tecnicamente un'opera ammirevole e molto raffinata, si avvale poi di una sceneggiatura solida che sfuggendo molte delle convenzioni del genere sentimentale si snoda placidamente tra una quasi totale assenza di colpi di scena.

Migliorarsi... Solo un po'

In uscita il primo ottobre 2004 distribuito in ben 200 copie, La vita che vorrei è il nuovo film di Giuseppe Piccioni, regista de Il grande Blek, Fuori dal mondo e Luce dei miei occhi. Rifiutato dagli organizzatori del festival di Venezia si appresta ad affrontare il giudizio del pubblico forte della partecipazione di Luigi Lo Cascio e Sandra Ceccarelli, e a spiazzarlo con una grande storia d'amore raccontata con toni insolitamente sommessi.

Due attori, Stefano, affermato e stimato, e Laura, non più giovanissima esordiente, si conoscono sul set di un melodramma in costume (tratto forse da La signora delle Camelie di Dumas). Il loro rapporto diventa presto intenso e problematico e la loro storia privata accompagnerà tutta la lavorazione del film.

Il lavoro di Piccioni prende subito le distanze dal discorso metacinematografico "alto" (quello alla Effetto notte, per intenderci), per come rinuncia a interrogarsi sull'eterno dilemma che ruota intorno alla dicotomia finzione/realtà, e si distingue dal filone metacinematografico "basso" nel lasciare sullo sfondo tutto quell'apparato macchiettistico da luci del varietà a cui spesso si ricorre in tante altre pellicole del genere film-nel-film. Tralascia infine anche di soffermarsi sull'aspetto sociologico della vicenda, di indagare il gruppo, la troupe, le sue dinamiche, le sue tensioni, la sua organizzazione ed evoluzione interne.

A emergere, con vera semplicità, sono i sentimenti dei due protagonisti nella loro così poco banale staticità, attori di un melodramma del quotidiano che nel quotidiano trova la barriera, la distanza, l'ostacolo.

Spesso i due piani si confondono, compenetrandosi (Stefano, l'attore misurato e "professionista", capace di controllare l'espressione dei suoi personaggi quanto incapace di amare dopo lo stop della macchina da presa) o opponendosi vicendevolmente. In questo senso, il set, la professione, il mondo del cinema, fungono da catalizzatori capaci di ridare vita e coraggio a una serie di clichés letterari e drammaturgici, di restituire autenticità a parole desuete ed esagerate, di farci credere che possiamo esprimere la nostra emotività così come non abbiamo forse più il coraggio di fare.

La finzione, lo spettacolo, è un velo opaco che nasconde ma che al tempo stesso, celando dietro le sue luci la nostra realtà alienata, sono anche sfondo ideale su cui far risaltare una grande storia d'amore. In un gioco di rimandi e risonanze sì infinito e vertiginoso, ma affidato più al cuore (il cuore, il serbatoio di coraggio di vivere di tutto il cinema di Piccioni) che ai bisturi dell'analisi e della critica.

E allora ecco che perdono di consistenza, per esempio, tutti i piccoli drammi che attorno al set ruotano (il cinico agente, il fallito presenzialista tuttofare che è convinto di vivere il cinema, il comprimario in cerca di fama), confusi in un mondo fatto di aneddotica ricca e puntuale (le feste, i provini, il set), mentre acquista consistenze il dramma di Stefano e Laura, che vivono il loro amore in una dimensione rarefatta di tempi lunghi e di frasi non pronunciate, illuminato dal set come in processo alchemico e poetico di "ottocentizzazione" del quotidiano. Il differente registro stilistico adottato per le riprese lo sottolinea efficacemente: lucido, nitido, colorato, spesso in profondità di campo, sovente in movimento, è lo sguardo sul cinema. Livido, opaco, stagliato su sfondi piatti e sfocati, quello sulla vita.

Tecnicamente un'opera ammirevole (cura della composizione, studio della luce, montaggio accuratissimo con raccordi sul suono, dissolvenze in nero inserite diegeticamente) e molto raffinata, si avvale poi di una sceneggiatura solida che sfuggendo molte delle convenzioni del genere sentimentale si snoda placidamente tra una quasi totale assenza di colpi di scena. C'è un gran lavoro fatto sulla parola, sui dialoghi, capaci di restituire una forte sensazione di familiarità, di storia già conosciuta, al di là dei riferimenti letterari presenti.
In questo senso la mancanza di evoluzione dei personaggi diventa precisa scelta di scrittura quando alla fine del film Stefano risponde a Laura, che gli chiede se sia cambiato, "Hai ragione, non sono cambiato, ma sono migliorato... Un po' sono migliorato". E evidenzia un'altra delle peculiarità di questo bel film: una certa continua oscillazione tra melodramma (l'immutabilità delle passioni, l'ambiente che resiste al cambiamento, il carattere come destino) e commedia (la forte caratterizzazione iniziale dei due personaggi che va via via limandosi nel discorso amoroso; ma, per l'appunto, solo un po').

La vita che vorrei sfrutta appieno le potenzialità di una coppia di attori collaudata (con Lo Cascio tenuto sulla cresta dell'onda da pubblico e critica) e di sicura presa e rappresenta ben più che un apprezzabile tentativo (senza dubbio è su Lo Cascio, malgrado il profilo schivo e riservato da lui sempre adottato, che bisognerebbe puntare più che su altri suoi colleghi) di tornare ad attingere alle ormai esauste riserve di un divismo made in Italy.

Un cinema, quello di Piccioni, che si pone al margine di una cinematografia da anni in cerca di improbabili modelli (inventati o recuperati) per una nuova rinascita, come esempio di poesia, misura, sincerità e mestiere.