Matthew McConaughey a Roma per Dallas Buyers Club

Il nostro incontro con l'attore texano, in questi giorni a Roma per presentare Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée, che gli è valso Golden Globe e nomination all'Oscar come migliore attore: una lunga intervista in cui ci ha parlato del film, ma anche della svolta di quarantenne, con i cambiamenti nella sua carriera come attore e nella vita come marito e padre.

Ha di nuovo un gran bell'aspetto Matthew McConaughey, sicuramente migliore e molto più in salute rispetto a come appare sullo schermo nel ruolo di Ron Woodroof, il personaggio che interpreta nel suo Dallas Buyers Club, che esce in questi giorni in Italia dopo essere stato presentato con successo al Festival di Roma. La curiosità intanto era per vederlo dal vivo, dopo l'incredibile trasformazione a cui si è sottoposto per la parte del cowboy malato di AIDS che lotta per il diritto di potersi curare con medicine alternative e non ancora approvate all'epoca dalla FDA (US Food and Drug Administration). Avrà già recuperato gli oltre venti chili persi per il film? La risposta è sì. O almeno quasi. Comunque oggi, in elegante completo grigio, gilet e camicia nera, somiglia decisamente di più al protagonista dello spot che lo vede testimonial di Dolce & Gabbana insieme a Scarlett Johansson, piuttosto che al sieropositivo malato terminale che interpreta nel film, ruolo grazie al quale ha già vinto il Golden Globe nella categoria drama, e che soprattutto gli ha regalato la nomination all'Oscar come protagonista. Momento d'oro per l'attore, i riconoscimenti per Dallas Buyers Club consacrano la sua svolta artistica cominciata oramai diversi anni fa dopo una carriera che iniziava a ristagnare in una serie di commedie e action movie tanto ripetitive quanto trascurabili, e soprattutto lo affrancano in maniera definitiva dall'etichetta di "più bello che bravo: dopo William Friedkin e Steven Soderbergh, anche Martin Scorsese lo ha voluto in The Wolf of Wall Street, in un piccolo ma significativo ruolo, dieci minuti eccezionali in cui lascia davvero il segno. Un cambio di rotta non casuale ma voluto e fortemente cercato, come ci racconterà più avanti: la volontà di essere un attore diverso, gli ha fatto tener duro fino al momento in cui per sua stessa ammissione ha cominciato a "diventare una buona idea" per un autore avere McConaughey in un film. L'abbiamo incontrato nell'hotel in via Veneto dove alloggia in queste giornate romane: loquace, elegante e disponibile, ci ha parlato di tutto questo, oltre che del film, della sua realizzazione come attore, come uomo e padre di famiglia.

Qual'è stata la parte più difficile nella realizzazione di un film come questo? Matthew McConaughey: Direi il fatto stesso di riuscire a realizzarlo. La sceneggiatura è stata rifiutata 137 volte negli ultimi vent'anni... non si riusciva a trovare nessuno che volesse finanziarlo. Anche noi ad un certo punto, cinque settimane prima dell'inizio delle riprese, ci siamo ritrovati di nuovo improvvisamente senza i soldi, abbiamo dovuto cercare ancora nuovi finanziatori. Se parliamo delle difficoltà come attore invece, direi che Ron Woodroof è prima di tutto un personaggio con tantissima rabbia dentro, che si scatena contro quelli diversi da lui, nei confronti dell'idea della morte, contro la FDA. Per me la sfida attoriale è stata di mostrare così tante variazioni sul tema della rabbia, e mostrarla da diverse prospettive.

Quando è entrato a far parte del progetto?
Il copione è finito sulla mia scrivania cinque anni fa. All'epoca non c'era ancora nessuno coinvolto nel progetto, c'era solo una storia, ma quando l'ho letta ho deciso immediatamente che dovevo partecipare: era una sceneggiatura con le zanne, nel senso che mi ha letteralmente azzannato. Ogni anno il progetto slittava sempre per il problema dei finanziamenti. L'anno in cui ho incontrato il regista Jean-Marc Vallée finalmente sembrava quello buono, eravamo in due a volerci imporre e a non desistere. Pensavamo di aver trovato i soldi ed il progetto è partito... dico pensavamo perché appunto cinque settimane prima dell'inizio delle riprese questi soldi sono diciamo spariti, non c'erano più: ci volevano far rimandare ancora, ma io avevo già perso venti chilie ho detto "No, il film si fa ora". Per fortuna abbiamo trovato nuovi finanziatori all'ultimo momento.

Come mai queste difficoltà per finanziare il film?
Beh, quando gli studios di Hollywood investono, vogliono fare sì un buon film... ma vogliono anche essere sicuri di guadagnare, o almeno di recuperare i soldi che investono. Un film che si presenta con parole chiave come "ambientazione d'epoca, dramma legato all'HIV, protagonista razzista e omofobo"... la prima cosa che un produttore pensa è: "ok, non avrò mai i miei soldi indietro".

Come si vede candidato all'Oscar, insieme ad altri attori così importanti? C'è anche Di Caprio per The Wolf of Wall Street in cui recita anche lei.
Si, Leonardo è candidato, ma oramai è stato candidato così tante volte... (ride, ndr). Anche Jonah Hill è candidato, tutti tranne me... ma in fondo io ho fatto solo cinque giorni di riprese. É stato incredibile essere chiamati da Scorsese: mentre mi portavano a casa sua in macchina, ho realizzato che nel 1992, quando frequentavo la scuola di cinema, io studiavo proprio Martin Scorsese... ed ora andavo a casa sua. É un uomo molto divertente ed ha una profonda conoscenza del cinema.

E ha visto La Grande Bellezza?
No, non l'ho visto. Ma ho conosciuto il regista Paolo Sorrentino ieri sera alla presentazione del film. Ci siamo salutati dicendo "Ok, allora ci vediamo agli Oscar". Non capita tutti i giorni di poter dire questa frase a qualcuno no?

Come spiega il cambiamento che è avvenuto nella sua carriera, gli ultimi film dove c'è stata decisamente una svolta artistica e autoriale? Questione di scelte, di opportunità che si sono presentate oppure semplicemente il caso?
Questa è un'ottima domanda sulla quale ho riflettuto molto ultimamente. Diciamo che circa quattro anni fa ho fatto un bilancio della mia carriera, e nonostante fossi soddisfatto di dove ero e di quello che avevo fatto, ho sentito l'esigenza di un cambiamento, letteralmente di "ricalibrare" la mia carriera. Continuavo a ricevere molte proposte e mi dicevo "ok, questo so che lo posso fare": quello che volevo era in realtà qualcosa che avessi paura di non saper fare, qualcosa che mi desse una scossa, che mi spaventasse. Quindi ho cominciato a rifiutare tutte queste proposte, fino a che non hanno smesso di arrivare. Per un anno non ho ricevuto offerte di lavoro, ma non mi sono perso d'animo: ero sereno, nel frattempo ho avuto un figlio e sono stato occupato a fare il padre. Poi qualche regista ha cominciato a cercarmi, e a propormi dei ruoli nuovi, ma nel frattempo avevo già smesso di fare quelli vecchi, in realtà non è stato un vero rebranding perché oramai ero già unbranding come attore. Improvvisamente è diventata una buona idea per alcuni registi avere McConaughey in certi ruoli. Credo che questo desiderio di cambiamento rientri molto nella naturale evoluzione di un uomo che compie quarant'anni: avere un figlio mi ha cambiato profondamente, la famiglia è stata importantissima in questo processo, tanto più ti senti sicuro quando torni a casa tua, tanto più alto riesci a volare quando sei fuori.

E qual'è stato secondo lei il film della svolta?
Direi che è stato l'insieme degli ultimi film piuttosto che uno solo. Guardando indietro, forse verrebbe da dire Killer Joe perché ha avuto più riconoscimenti, ma prima c'è stato The Lincoln Lawyer, forse la svolta è iniziata da lì.

Ci parli della trasformazione fisica che ha dovuto subire. Com'è stato perdere tutto quel peso?
E' stata una cosa da militare, fatta con precisione scientifica e dedizione. Ovviamente ero seguito da un medico, ho perso ventitré chili in quattro mesi, quindi circa un chilo e mezzo a settimana.
La cosa che ricordo è che man mano che il corpo perdeva potenza ed energia, era come se aumentasse l'attività della mente: quello che perdevo dal collo in giù era come se lo guadagnassi dal collo in sù, il cervello era iperattivo, dormivo sempre meno ore. Un po' quello che è successo a Ron Woodroof credo: lui dimagriva, ma la sua mente era sempre più attiva, affamata come la testa di un uccellino scheletrico che spunta dal nido.

Hollywood e l'Academy amano molto le trasformazioni degli attori. Pensa che la candidatura all'Oscar ci sarebbe stata anche senza la perdita di peso?
Credo che i venti chili persi non possano rappresentare una forma d'arte; al massimo credo che rappresentino quello che fa notizia prima di vedere il film, il titolo forte, lo shock di vedermi così magro sul manifesto del film. Ma quando vedi il film ti accorgi che è molto più di quello, sono la storia e il personaggio che prendono il sopravvento.

E lei cosa ne pensa delle cure alternative, la legalizzazione delle medicine da parte della FDA? É un problema sentito in America?
Nel 1985, anno in cui Ron Woodroof ha contratto il virus dell'HIV, eravamo ancora all'inizio della ricerca e della sperimentazione, neanche i medici sapevano cosa fare, somministravano l'AZT che uccideva le cellule malate ma anche quelle sane. Non c'era una soluzione e forse non era ancora neanche una priorità perché non era al centro dell'attenzione dei gruppi di interesse tradizionali, non riguardava ancora le masse ma piuttosto le comunità ai margini come quelle dei gay. Ron ha gettato una luce su questo problema, lottava non solo per i suoi diritti ma per quelli di tutti i pazienti, compreso il diritto di accesso a farmaci e trattamenti alternativi: è andato in tribunale e ha perso, quindi non è un vincitore sotto quel punto di vista, ma ha il merito di aver sollevato un polverone, di aver portato il problema all'attenzione dell'opinione pubblica e di farlo diventare una priorità. Io penso che in uno stato di malattia terminale, perché impedire a qualcuno di provare a curarsi come vuole? Certo è che quando business e medicina si scontrano entriamo sempre in una sorta di zona grigia dove è sempre difficile distinguere cosa è giusto da cosa è sbagliato. Oggi che finalmente si può parlare di AIDS senza vergogna rispetto ad un tempo, penso che questo film sia estremamente importante anche per coloro che non ci si sono più, che sono morti a causa dell'HIV senza neanche poterne parlare. É un film che parla di un'epoca lontana, ma la cui rilevanza è estremamente attuale.

Com'è stato il rapporto con i colleghi sul set?
Jennifer Garner la conoscevo perché avevamo già lavorato insieme, Jared Leto l'ho conosciuto... alla fine del film. Nel senso che ci siamo presentati come Matthew e Jared solo finite le riprese: prima non c'era tempo o interesse a chiacchierare, fare conoscenza o scambiarsi convenevoli, eravamo totalmente presi e sul set eravamo solo e sempre Ron e Rayon.

E all'Oscar non ci pensa?
Sono molto fiero delle candidature ma onestamente non vivo nell'attesa. Anche oggi non sono qui per promuovere o vendere il film: il film parla da sé, io sono qui per parlarne e condividere quella che per me è stata un'esperienza veramente straordinaria.