Recensione The Blair Witch project - Il mistero della strega di Blair (1999)

Tre ragazzi a caccia di streghe. Una natura primitiva ed inquietante ritratta in presa diretta. Un'invisibile ronda infernale attende impietosamente in una strana casa...

La strega con la macchina da presa

E' stato il caso cinematografico degli ultimi anni. Ha prodotto sconcerto, ilarità e sincera ammirazione. Ma cos'è realmente questo film? Un tentativo di fiction documentaristica, un'intuizione geniale di cinema sperimentale o un'autentica bufala confezionata magistralmente? Forse le tre cose si sposano bene nel film. La parte iniziale è decisamente buona in quanto funge da introduzione al mistero della strega di Blair, il cui spirito aleggerebbe ancora nei boschi di Burkittsville: i preparativi per la "missione", le interviste e le notizie di carattere storico contribuiscono ad accrescere la curiosità verso quello che verrà dopo. Bisogna dire però che quel dopo non è altro che l'inizio del film. Viene privilegiata, insomma, una circolarità che costituisce sicuramente il fascino del "project", la cui esegesi parte proprio dal ritrovamento del nastro che stiamo vedendo (spunto per l'accusa di plagio mossa ai registi Eduardo Sánchez e Daniel Myrick da parte di Ruggero Deodato che ritiene il film in analisi una decalcomania di Cannibal holocaust). Ed è qui che entra in gioco il dilemma, antico come il cinema, sul rapporto tra l'occhio dello spettatore e quello della macchina da presa. Evidentemente The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair vuole essere un'esaltazione dell'"effetto di reale" nel cinema (in accordo, almeno indirettamente, alle teorie di Barthes). Ma proprio qui giunge la vera forzatura dell'operazione che rende ambiguo e sfilacciato l'effetto in questione.

Infatti l'indagine dei tre ragazzi viene portata avanti grazie all'impiego simultaneo di una telecamera e di una 16mm (con un tripudio, neanche a dirlo, di soggettive) che in sé ha poco di reale: i vari spezzoni di pellicola risultano accostati perfettamente o, comunque, in maniera accettabile (è stata per caso la strega di Blair a curare il montaggio?). Al di là di questa discrepanza, che però attribuisce un significato "filmico" alla pellicola, l'atmosfera generale è sicuramente affascinante con qualche colpo da maestro (la macchina da presa che, in alcuni momenti, scruta il bosco cercando le fonti di strani rumori o che attua movimenti che fendono l'oscurità, cercando di creare una preoccupazione tangibile nello spettatore, grazie anche a volute, e naturali, sovraesposizioni e sfocature delle immagini).

La scena clou della montante tragedia, la cui tensione implicita cresce insieme al film, è sicuramente la confessione, con un intenso primissimo piano, di una Heather piangente, disperata e, come tale, al culmine della sincerità (nonostante le propaggini al vetriolo del primo episodio di Scary Movie ne andranno a sottolineare l'estrema pateticità).

Magnificamente riuscita, invece, la chiusa del film con l'approdo in una casa, mai come in questo caso simbolo freudiano di corporeità nonché principio materno del male, "affrescata" con simboli di inenarrabili riti pagani; la folle corsa su e giù per le scale diventa metafora di un destino ormai irreversibile e la morte dei due superstiti è l'inevitabile conclusione, con la macchina da presa che simbolicamente "crolla" a terra sotto i colpi di un sabba visivo impazzito. E quel "cine-occhio" adagiato sul suolo che, nonostante tutto, continua imperterrita a riprendere uno scenario senza più protagonisti tangibili (dove però le streghe magari continuano a ballare e ad emanare influssi maligni), rappresenta il feticcio interiore del film, la cui conclusione non è altro che il definitivo arrendersi dello sguardo del regista-attore-spettatore, tornato nel frattempo alle origini del "cinema puro": quello della cineattualità dei Lumière, del Dziga Vertov de L'uomo con la macchina da presa e, soprattutto, del James Williamson di The Big Swallow. In questo cortometraggio del 1903 una macchina da presa viene collocata in mezzo alla strada riprendendo ignari cittadini che camminano. Ad un certo punto un passante infastidito si avvicina sempre più verso l'obiettivo mostrando la sua bocca spalancata fino ad oscurare completamente lo schermo.

Per cui la conclusione di The Blair Witch Project è certamente il simbolo del contatto con una dimensione altra, quella sovrannaturale delle streghe ovviamente, se non fosse però per le tante connotazioni metalinguistiche possibili. L'ultima inquadratura di The Blair Witch Project potrebbe essere, dunque, anche l'essenza stessa del cinema. Potrebbe essere l'esaltazione di quel luogo magico che continuerà ad esistere anche senza protagonisti e senza che l'"ingordigia" dei singoli interpreti, collocati davanti o dietro la macchina da presa, possa annullare il suo sguardo (come succede, invece, in The Big Swallow).
Quel vuoto, quello spazio, quel nulla ripreso da un obiettivo impotente, potrebbe essere l'anima del cinema. Quell'infinito fotogramma finale rappresenta tutto il senso del film che si avvia a conclusione, dopo che tutti i personaggi in carne ed ossa sono stati spazzati via da un'entità che non si vede e che pur si è manifestata, come l'eco di un film appena concluso che continua a riverberarsi sul grande schermo oscurato.

Detto ciò bisogna pur dire che in molte parti il film sembra però girare a vuoto, tra un "effetto di reale" e un più banale effetto "mal di mare". Manca spesso difatti un coinvolgimento emotivo ed un necessario rapporto tensivo tra storia e narrazione: l'"effetto di reale" diventa esso stesso un elemento oggettualizzato della pellicola, non realizzando quella mimesi della finzione tanto inseguita. Molte scene appaiono troppo ben costruite per dare alla storia una credibile patina di autenticità. Bisognerebbe comunque ringraziare chi ha fatto di questo The Blair Witch Project una realtà del panorama cinematografico odierno, sia per l'"idea" implicita del film che per la splendida riuscita della sequenza finale, la cui inquadratura terminale potrebbe durare all'infinito, come un urlo liberatorio.