Recensione Hanezu no Tsuki (2011)

Rarefatto e malinconico, il film di Naomi Kawase mette in relazione i personaggi con le frustrazioni dei loro antenati, e i loro sentimenti con quelli di antichissime generazioni.

La pazienza delle montagne

A Nara, nell'area di Asuka, culla della civiltà giapponese, due amanti tormentati cercano nel passato la ragione del proprio turbamento e della propria ansia. Il nonno di Takumi, spedito in guerra, rimase ucciso quando suo padre era piccolissimo; la nonna di Kayoko andò in sposa a suo nonno amando un altro. Lui intaglia il legno e attende il bambino che dovranno avere insieme; lei cerca il modo di confessare a suo marito di essere incinta di un altro. Intanto, intorno a loro, le montagne e i campi parlano di separazioni e di rivalità e di lunghissime, ma liete, attese.

Hanezu, la parola che dà il titolo a questa pellicola di Naomi Kawase, è un termine antico che si trova nelle raccolte poetiche nipponiche dell'VIII secolo, e indica una sfumatura di rosso, il colore del sangue e del fuoco, della vita e della passione; ma anche un colore delicato, destinato a svanire presto, sotto la pioggia che cade su Nara. Così è l'amore tra Kayoko e Takumi, di cui la Kawase non ci dice molto, ci mostra solo lo struggimento e la frustrazione di una generazione incapace di "attendere".

Tra poetici scenari, corpi celesti e corpi terrestri, sospiri risonanti e ragni industriosi (loro sì, notoriamente pazienti), la Kawase confeziona un dramma contemporaneo di assai difficile dirigibilità. Per quanto gli enigmi e lo spirito della cultura giapponese siano resi familiari allo spettatore occidentale attraverso le università, i centri culturali, e naturalmente i media, è difficile farsi trovare pronti per qualcosa di rarefatto, criptico, ripetitivo e disorganico come Hanezu no Tsuki. Restano le musiche incantevoli, e le suggestioni affascinanti per apprezzare le quali, però, toccherà a noi avere la costanza e la pazienza delle montagne.

Movieplayer.it

2.0/5