Recensione Gran Torino (2008)

Eastwood si conferma regista del sogno americano, o meglio dello svelamento del suo carattere ingannevole e tuttavia dell'impossibilità di rinunciarvi: del suo cinema autenticamente "morale" questo film rappresenta un altro, fondamentale tassello.

La moralità di un sogno

È stato un 2008 ricco di soddisfazioni, per Clint Eastwood. Dopo il premio speciale a Cannes per Changeling, corredato dai consueti, ormai unanimi riconoscimenti da parte della critica, arriva ora questo Gran Torino: due film quasi speculari, l'America di ieri contro quella di oggi, la crudeltà e l'opportunismo del potere contro il razzismo strisciante di una multietnicità fallace che continua a generare ghetti. Il settantottenne Clint si mette a nudo come non mai in questo film, il primo in cui torna a recitare dopo Million Dollar Baby: e lo fa con una sincerità disarmante, con un personaggio che è un po' la summa di tutti i "duri" da lui fin qui interpretati (dal pistolero di Sergio Leone al Dirty Harry cui diede vita cinematografica Don Siegel), filtrato attraverso uno sguardo ironico e autoironico, divertito e amaro insieme.

E' in effetti un film divertito e in grado di divertire, Gran Torino. Il personaggio di Walt Kowalsky è rappresentato con tratti grotteschi, ma mai sopra le righe: è un reduce nel senso più ampio del termine, non solo di quella guerra di Corea di cui ancora porta, decenni dopo, i segni nell'anima, ma anche di un tempo che non esiste più, di un ordine apparente in cui amici e nemici erano palesi e riconoscibili. Difficile ritrovarsi, per il vecchio Walt, in un quartiere ormai conteso tra coreani, afroamericani e italiani, difficile ammettere, in primis con sé stesso, di aver combattuto per ideali fallaci, difficile riconoscere di avere molto più in comune con gli odiati "musi gialli" che hanno invaso la sua zona che con gli smemorati ed egoisti figli. Fin troppo facile, per noi, riconoscere il carattere autobiografico del personaggio, la sua ferrea etica sotto l'apparente nichilismo, che è poi quella di uno degli ultimi, grandi registi "morali" di Hollywood. Ed è proprio quella di cinema morale, umanista, la definizione che forse più si addice all'opera di Eastwood, di cui questo film rappresenta un ennesimo, fondamentale tassello: incredibili e grottesche, guardandosi indietro, appaiono ora le accuse di fascismo rivolte ai suoi primi film, fuorviante qualsiasi connotazione banalmente conservatrice appioppata, altrettanto frettolosamente, al suo cinema.

La verità è che Eastwood, come Sean Penn (autore-attore che di Clint ha raccolto, per molti versi, l'eredità) è regista del sogno americano, o meglio dello svelamento del suo carattere ingannevole e tuttavia dell'impossibilità di rinunciarvi. I suoi personaggi sono uomini e donne che la pervasività del potere ha trasformato profondamente, individui costretti a recitare ruoli non loro, intrappolati nelle maglie di quella che è una promessa disattesa. Il carattere multietnico e multiculturale che fu alla base della costruzione della società americana rivela qui la sua dura realtà di miseria e discriminazione, di violenza e soprusi, di razzismo anche tra le stesse minoranze. La retorica patriottica e bellica è ridicolizzata nella parabola di un uomo perseguitato dai fantasmi delle persone che ha ucciso, incapace di farsi una ragione delle sue azioni passate, incapace di dar loro persino un senso. E tuttavia, il rapporto col giovane Tao (ottimamente interpretato dall'esordiente Bee Vang) finisce per rappresentare una nuova occasione per Walt, una rinascita in quanto nuova possibilità di mettere alla prova la sua umanità. Un affetto quasi paterno, che per il vecchio veterano fungerà da surrogato per il rapporto perduto con figli ormai lontanissimi: il tutto, neanche troppo sorprendentemente, innescato da un tentativo di furto (forzato), quello di quell'automobile d'epoca emblema di un'innocenza perduta, forse solo sognata.
Su tutto, uno sguardo ricco di dolente partecipazione, di divertita e commossa empatia con i personaggi, di lucida sincerità d'intenti. La perfetta integrazione dei registri presenti nella narrazione (merito della sceneggiatura di Nick Schenk) si aggiunge alla solita regia emotivamente potente quanto "invisibile", rappresentazione perfetta di una classicità che questo grande vecchio di Hollywood continua ostinatamente a tenere in vita. La sua coerenza e la sua ferma moralità, specie quando foriere di risultati artisticamente così validi, non possono che incontrare il plauso di tutti noi.

Movieplayer.it

4.0/5