Recensione Lo sguardo di Satana - Carrie (2013)

Il film di Kimberly Peirce cerca di adattare l'originale storia scritta da Stephen King, portata sullo schermo a suo tempo da Brian De Palma, a un contesto moderno: ma il film soffre dei limiti di un casting sbagliato, e di una concezione del genere troppo esplicita e "urlata".

La furia replicata

La notizia di una nuova versione di Carrie - Lo sguardo di Satana aveva attirato, da subito, un diffuso scetticismo. Al di là dell'ostilità (comprensibile, ma non necessariamente giustificata) che accompagna sempre operazioni del genere, qui influiscono anche l'importanza e il "peso" dei nomi coinvolti: Stephen King e Brian De Palma, rispettivamente autore del romanzo originale (il primo da lui pubblicato, nel 1974, inizio di una lunga carriera) e regista della sua trasposizione cinematografica, di due anni dopo, sicuramente tra i più rappresentativi horror degli anni '70. Con due giganti del genere come termini di paragone, nei rispettivi ambiti, e soprattutto un modello (cinematografico) ancora così moderno e d'impatto, gli auspici per questo Lo sguardo di Satana - Carrie (abbastanza incomprensibile, e poco eufonica, la scelta della distribuzione di invertire titolo e sottotitolo) non erano, comprensibilmente, dei migliori. Iniziamo subito, mettendo al bando qualsiasi ambiguità, col dire che tali auspici negativi si sono rivelati più che giustificati. Sia che lo si approcci come una nuova versione del romanzo di King, opera importante al di là dei suoi meriti specifici, sia come un remake della pellicola di De Palma, il film di Kimberly Peirce non funziona: un horror che riassume, a mo' di bignami, tutti i mali che affliggono oggi il genere, sommati a una spruzzata (mal miscelata) di romanticismo da teen movie. Ma i problemi del film della Peirce (difficile riconoscere, qui, la regista che diresse il folgorante Boys Don't Cry) sono più d'uno. Vediamo di analizzarli con ordine.

Brividi "urlati"

Il film di De Palma (e con esso il romanzo di King) apparteneva sommariamente al genere horror, e tuttavia lo trascendeva sotto molti aspetti: Carrie, infatti, era innanzitutto un dramma sulla crescita di un'adolescente, sull'orrore (quotidiano) dell'emarginazione nell'ambiente scolastico, su una figura femminile schiacciata tra un bigottismo ottuso da una parte, incarnato dalla figura della madre, e dall'altra l'incapacità di uniformarsi a un modello di donna, fatuo e superficiale, che finiva paradossalmente per dare ragione a quest'ultima. Qui, la prima sequenza ci mostra invece, da subito, quale sarà il tono della storia: il parto in casa, da sola, di Margaret White (che ha il volto di Julianne Moore), il sangue, le urla, il proposito, poi trattenuto, di uccidere la neonata, considerata un "cancro". Una sequenza anche efficace, in sé, ma esemplificativa del clima che la regista ha scelto di dare al film: urlato, esplicito, poco incline alle sottigliezze. Non a caso, il film di De Palma si apriva invece con la nota sequenza della doccia, e delle mestruazioni della giovane protagonista: e non a caso il sottile erotismo, misto a inquietudine, che emanava da quella sequenza (accompagnato dalle note di Pino Donaggio) è completamente scomparso dalla corrispondente scena presente qui. Il confronto tra i prologhi dei due film è, forse più di ogni altra cosa, rappresentativo della distanza che li separa, e dei diversi approcci alla materia.

Carrie... Potter?

Il punto, al di là di questa considerazione generale, è anche un altro: nel film del 1976, così come nel romanzo, la giovane Carrie era, per larga parte della storia, quasi posseduta dal suo potere. Nei momenti di maggiore rabbia o stress, le facoltà telecinetiche della ragazza venivano fuori, in modo incontrollato e quasi inconsapevole. Solo una volta, quella decisiva, subito dopo lo scherzo più crudele, Carrie sceglieva di utilizzare il suo potere: e, anche in quel caso, non si trattava di una vera scelta, quanto piuttosto dell'espressione, incontrollabile e distruttiva, di una rabbia troppo a lungo repressa. Qui, siamo di fronte a una scelta narrativa completamente diversa: in più di una scena, si vede la ragazza esercitarsi col suo potere, stabilire su di esso un controllo, quasi dominarlo. Carrie si documenta, cerca testi sulla telecinesi (e, in modo ben poco credibile, riesce a portarli a casa e a nasconderli alla tirannica Margaret), diventa consapevole delle sue facoltà e inizia ad usarle. La vediamo muovere oggetti a comando, quasi come una versione femminile di Harry Potter. L'effetto, oltre ad essere poco coerente coi tratti del personaggio, è tra il kitsch e il ridicolo involontario.

Fuori moda, fuori posto... fuori ruolo
Ma questo nuovo Carrie, al di là dei limiti appena ricordati, soffre anche di un difetto ancora più macroscopico: un limite che, da subito, balzerebbe anche agli occhi di chi non avesse visto il film di De Palma, né letto il romanzo di King. Raramente, infatti, abbiamo visto un casting più sbagliato per quanto concerne i ruoli principali: a cominciare da una Chloe Moretz che è una Carrie poco credibile, inadeguata, scelta forse al solo scopo di inserire un volto noto e riconoscibile nel ruolo di protagonista. La Moretz, attrice di suo brava, qui suscita da subito più di una perplessità, non appena la si vede apparire sullo schermo: il suo volto, infatti, non è quello di un'adolescente emarginata. Non è tanto questione di bellezza fisica, quanto di pura attitudine; un limite oggettivo, che rende vani tutti gli sforzi che la giovane attrice fa per dare credibilità alla sua prova. Certo, quello di Carrie era un ruolo particolarmente delicato, che richiedeva una "trasformazione" attoriale non da poco: da brutto anatroccolo per tre quarti della pellicola, a cigno nella sequenza del ballo, per arrivare al mostro senza controllo dell'epilogo. Sissy Spacek, a suo tempo, aveva superato il test egregiamente; mentre la Moretz fallisce proprio laddove dovrebbe ritrarre il volto di una teenager fuori dal giro, che susciti empatia ma anche un certo grado di inquietudine. Ancora peggio, se possibile, fa un Ansel Elgort che, chiamato a interpretare il bello della scuola Tommy Ross, sembra lui stesso incapace di capacitarsi di aver ottenuto tale parte; ma, in un caso come questo, non ha molto senso criticare la prova di un attore trovatosi a dare il volto a un personaggio così platealmente fuori dalle sue corde. Se la stessa Sue Snell interpretata da Gabriella Wilde, aguzzina pentita della protagonista, si rivela abbastanza monoespressiva e anonima, a salvarsi è solo la già citata Jullianne Moore; che, con esperienza, pennella il ritratto di una Margaret White efficace e inquietante. Un po' poco, comunque, per salvare un casting, e un film, con problemi tanto evidenti.

All'inferno... e oltre

La sequenza-clou della parte finale cerca di replicare, goffamente, l'impatto di quella del film di De Palma, aggiungendovi solo l'intuizione del video girato col cellulare dalla perfida Chris Hargensen: un piccolo adeguamento della storia ai moderni motivi del cyber-bullismo, e a una rappresentazione dell'universo adolescenziale che, nei suoi rituali, appare sempre più indistricabilmente legato alla comunicazione in rete (e alle sue tante perversioni). Per il resto, in un finale che (con le ovvie differenze di resa, legate al diverso budget) riproduce abbastanza fedelmente gli eventi rappresentati nella pellicola del 1976, spicca una differenza fondamentale; un evento che pare voler tenere aperta la porta a un eventuale (quanto poco auspicabile) sequel. Un Carrie 2: La furia, seguito apocrifo del film di De Palma, datato 1999, a dire il vero c'era già stato: ma ben pochi, all'epoca, se ne sono evidentemente accorti. Replicare ora l'esperimento, specie con un prototipo dalla riuscita così modesta, sembra un'idea tutt'altro che entusiasmante. L'auspicio di chi scrive è che non si scelga di spremere, oltremodo e con risultati (anche commerciali) dall'esito dubbio, un soggetto che era nato con ben altre premesse, e che sarebbe meglio, piuttosto, restituire alla memoria, letteraria e cinefila.

Movieplayer.it

2.0/5