Recensione Hunger (2008)

McQueen abbraccia il calvario di Sands solo dopo esser passato attraverso tre personaggi. E lo fa azzerando le parole, con un cinema duro e frontale che rifiuta ogni didascalismo, ma si permette anche aperture di una potenza evocativa ragguardevole, non risparmiando nulla in termini di violenza espositiva e di realismo.

Il volo di Bobby Sands

Chissà, se dopo aver visto Hunger, il mondo degli addetti ai lavori smetterà di ricordarsi dell'esordiente Steve McQueen solo per la sua omonimia con il celebre attore. Perché dietro a un uomo di colore di trentanove anni con un passato da scultore e da fotografo e la fisicità di un buttafuori, si nasconde un talento cristallino. Almeno a voler giudicare questa sua opera prima che racconta la storia di Bobby Sands (un grandissimo Michael Fassbender), l'attivista irlandese degli anni Ottanta lasciatosi morire in galera per uno sciopero della fame durato sessantasei giorni, dopo aver subito le più violente torture all'interno del carcere.


Hunger è il biopic politico più coraggioso che si sia visto da anni a questa parti e fa quasi sorridere pensare che, su temi analoghi, il ben inferiore Il vento che accarezza l'erba di Ken Loach vinse a Cannes proprio due anni fa. A sbalordire nel film di McQueen da una parte c'è una padronanza assoluta della messa in scena, dall'altra la qualità e il coraggio delle scelte operate, sia sotto il profilo stilistico, che narrativo. Hunger scarta con una consapevolezza sorprendente tutte le trappole più comuni di un soggetto del genere, attraverso un montaggio ellittico e aperture di una potenza evocativa ragguardevole. Soprattutto, dosando alla perfezione pancia e cervello e soffermandosi su dettagli apparentemente poco pregnanti (le briciole della colazione, le lacrime del celerino, gli uccelli) ma di grande respiro cinematografico.

McQueen abbraccia il calvario di Sands solo dopo esser passato attraverso tre personaggi: un poliziotto addetto alla sorveglianza del carcere e dedito a pestaggi indiscriminati e due altri detenuti, soggetti alle stesse condizioni inumane. Lo fa azzerando le parole, con un cinema duro e frontale che rifiuta ogni didascalismo e non risparmia nulla in termini di violenza espositiva e di realismo. Una prima parte che imprigiona lo spettatore senza tregua e che ha un vero e proprio climax nel duro intervento repressivo, successivo ai primi segnali di compromesso tra le posizioni politiche dell'Irlanda del Nord e l'Inghilterra. Ecco che improvvisamente Hunger muta registro e si riappropria del parlato, attraverso un lunghissimo dialogo in piano sequenza in cui Sands espone la sua strategia al prete che vuole convincerlo a una posizione più compromissoria. Venti minuti di una densità notevole che forniscono un'ulteriore dimostrazione dei numeri del regista inglese che abbandona il contesto carcerario, sottolineandone l'inferno con un altro piano sequenza da brividi.
Prima di occuparsi dell'agonia definitiva di Sands, ritornando al silenzio assoluto, con un incanto e un impatto emotivo preziosissimi, che ricordano un po' gli ultimi struggenti momenti del Christopher McCandless di Into the Wild.