Il cinema del 2011, tra classicità e innovazioni rimandate

Si è appena conclusa un'annata che ha segnato un netto rallentamento (ma non ancora un fallimento) per l'avanzata del 3D, insieme alla riaffermazione della classicità di un cinema, quello hollywoodiano, che ha visto il ritorno di alcuni dei suoi più importanti autori.

Una delle prime considerazioni che si possono fare, dando una scorsa alle uscite di questo 2011 cinematografico, è il mancato decollo (è presto per parlare di declino) di una tecnologia che tutti davano per vincente come quella del 3D. Una pellicola come Avatar, datata 2009 ma arrivata nelle nostre sale all'inizio dello scorso anno, e l'inflazione di uscite stereoscopiche giunte a ridosso del film di James Cameron, avevano dato un'impressione probabilmente fuorviante: il problema, forse, è che il film di Cameron è arrivato paradossalmente troppo presto, e ha sfruttato la terza dimensione troppo bene, rispetto ai suoi tanti epigoni, che si sono in gran parte limitati ad un effettismo vecchio e d'accatto, senza considerare le tante possibilità, in termini di profondità e di capacità immersive, che la stereoscopia offre. Che il motivo sia questo, che sia la scomodità degli occhialini o le sale non ancora attrezzate per una visione ottimale (e che non rischi di alterare in modo determinante la fotografia del film) o che sia un insieme di tutti questi fattori, i dati parlano chiaro: nel 2011 abbiamo assistito a un calo evidente delle produzioni stereoscopiche, e moltissimi, diremmo la maggioranza, tra i blockbuster usciti nel corso dell'anno, hanno fatto a meno di questo optional. La terza dimensione è comunque rimasta fortemente appannaggio del cinema di animazione digitale (e non solo: vedi la recente riedizione de Il re leone 3D) che sembra per ora aver sposato con convinzione questa tecnologia, ed essersi ad essa adattata in modo più che ottimale: i "giganti" come Pixar e Dreamworks continuano a proporre i loro titoli di punta (quest'anno i sequel Cars 2 e Kung Fu Panda 2, e il recente Il gatto con gli stivali) nella doppia versione con o senza occhialini, ma anche i titoli apparentemente minori, quali Happy Feet 2 in 3D ed Animals United 3D, fanno uso della stereoscopia per rendere più credibile il dettagliato universo digitale in cui ambientano le loro storie. Fa eccezione, in questo senso, un prodotto più peculiare e cinefilo come Rango di Gore Verbinski, pensato per appagare palati più fini e caratterizzato da uno spinto citazionismo.

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Terza dimensione a parte, argomento sul quale è giusto e doveroso sospendere il giudizio (in attesa che le evoluzioni tecnologiche, e i gusti del pubblico, ne decretino l'affermazione o la definitiva scomparsa), questo 2011 si è caratterizzato, sul fronte hollywoodiano, per la riaffermazione di una classicità che coniuga in modo ottimale professionalità, abilità nel coinvolgere il pubblico sul piano emotivo, ed esigenze di botteghino: ne è stata un esempio l'ultima Notte degli Oscar, che come da previsione ha visto trionfare un prodotto come Il discorso del re (europeo ma più che mai "hollywoodiano" nella concezione, così come nella co-produzione dei fratelli Harvey Weinstein e Bob Weinstein) relegando al margine pellicole più sperimentali e coraggiose quali Inception, The Social Network e 127 ore. Sono stati proprio i futuri protagonisti (e gli sconfitti) della notte dell'Academy, giunti tardivamente sui nostri schermi, a catturare gran parte dell'attenzione del pubblico nei primi mesi del 2011: al già citato 127 ore di Danny Boyle (sorta di horror agorafobico che fa il paio con una pellicola dalla diversa ambientazione, ma simile concezione, come Frozen di Adam Green) si aggiungono il protagonista della precedente Mostra del Cinema di Venezia, Il cigno nero di Darren Aronofsky, l'omaggio al western classico con Il grinta dei fratelli Coen, il dramma rurale, retto dalla splendida interpretazione della giovane Jennifer Lawrence, di Un gelido inverno di Debra Granik, la commedia familiare de I ragazzi stanno bene, diretta da Lisa Cholodenko. Una produzione, quella statunitense, che da una parte continua a riservare una nicchia importante al cinema indipendente, che fa giungere sui nostri schermi pellicole nerd e riservate a uno zoccolo duro di appassionati come Kick-Ass o Super, che non rinuncia all'autorialità che va d'accordo col botteghino di Sucker Punch o Super 8 (diretti dai rispettivi enfant prodige Zack Snyder e J.J. Abrams) ma che dall'altra parte ha rilanciato proprio in quest'annata i suoi autori storici, quelli che negli anni '70 la rivoluzionarono lasciando tracce importanti del loro lavoro anche nei decenni a venire: un film attesissimo, complesso e affascinante quanto ostico da "leggere" come The Tree of Life di Terrence Malick (meritata Palma d'Oro al Festival di Cannes) ne è l'esemplificazione più evidente.

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Sarebbe scorretto limitare al solo film di Malick la riflessione sulla Hollywood meno di cassetta e più incline ad osare di quest'anno, visto il ritorno di altri suoi importanti protagonisti, seppur in una dimensione ancora più piccola e personale: parliamo di John Landis con il delizioso Ladri di cadaveri - Burke & Hare e di John Carpenter con un horror dall'apparente sapore retrò, politico senza mostrare di esserlo, come The Ward - Il reparto. Persino Wes Craven ritrova linfa vitale riprendendo una sua saga storica, con uno Scream 4 candidato a farsi apripista di una nuova trilogia, mentre tracce di New Hollywood le ritroviamo anche in un film indipendente, mal distribuito ma fortemente personale e poetico, come L'amore che resta di Gus Van Sant. La classicità, nel senso migliore del termine, del cinema che nel bene e nel male continua a dominare a livello mondiale questa industria è comunque garantita da titoli come Le idi di marzo di George Clooney (apripista della recente Mostra del Cinema di Venezia, con protagonista un grande Ryan Gosling) e The Conspirator di Robert Redford, entrambi caratterizzati da uno slancio politico e di denuncia che informava di sé il miglior cinema statunitense di qualche decennio fa; da un Woody Allen che con Midnight in Paris continua ad affidarsi alla bravura dei suoi interpreti e alla leggerezza della narrazione; da un Clint Eastwood che in Hereafter si fa tanto più apparentemente "grande" nella confezione quanto più raccolto e teso al personale nel discorso che porta avanti, in attesa della nuova inversione di rotta con l'imminente biopic J. Edgar. Anche David Cronenberg, con un film apparentemente lontano dai suoi temi preferiti quale A Dangerous Method (visto anch'esso a Venezia) lavora con la classicità per inserirvi elementi personali e dissonanti; mentre l'intrattenimento di qualità, quello che unisce l'amore per il genere a una visione registica intelligente e adeguata ai tempi, è garantito da due pellicole molto diverse per temi e atmosfere, ma analoghe nella riuscita, come il thriller Contagion di Steven Soderbergh e l'avventuroso Le avventure di Tintin: Il segreto dell'unicorno; coronamento, quest'ultimo, di un vecchio sogno di Steven Spielberg realizzatosi infine grazie all'animazione digitale e al supporto del collega Peter Jackson.

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Nell'ambito del blockbuster puro vanno poi citati i cinecomics di diversa fattura e riuscita, ma sempre forieri di sicuri risultati al botteghino, quali The Green Hornet e Thor, risultati dell'approdo al genere (con il corollario della stereoscopia) di due autori normalmente lontani dalle sue dinamiche quali Michel Gondry e Kenneth Branagh; menzione d'obbligo anche per il riuscito X-Men: L'inizio, reboot ad opera di Matthew Vaughn, e per i meno personali ma (com'era prevedibile) ugualmente fortunati Captain America: Il primo vendicatore e Lanterna verde. La serialità nell'ambito dei prodotti di cassetta continua a dare i suoi frutti, con gli ultimi episodi di saghe ad alto tasso di tecnologia e adrenalina quali Fast & Furious 5 e Transformers 3, con la commedia d'azione Red pronta ad essere affiancata da un previsto sequel, con l'ennesima avventura di Jack Sparrow nel nuovo Pirati dei Caraibi: Oltre i confini del mare, con l'interessante reboot de L'alba del pianeta delle scimmie e l'agognata conclusione della saga di Harry Potter in uno dei suoi episodi cinematograficamente più riusciti, ovvero Harry Potter e i doni della morte - parte 2. Anche un'altra saga (ancor più) teen oriented come quella di Twilight si avvia alla sua conclusione con i vampiri, i lupi mannari, le progenie inquietanti e gli onnipresenti sospiri di The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1; mentre nel recentissimo, e già baciato da incassi da capogiro, Sherlock Holmes: Gioco di ombre, Guy Ritchie mette di nuovo la sua attitudine indipendente (e dissacrante) e il suo ipercinetismo visivo, a disposizione di un prodotto che rilegge e reinterpreta in chiave moderna un classico. Anche la science fiction, nelle sue diverse declinazioni, trova i suoi degni rappresentanti in questo 2011: se un giovane regista come Duncan Jones, dopo il riuscito Moon, continua a darne la sua personale visione nell'altrettanto interessante Source Code, la variante più fracassona ed "emmerichiana" del genere è rappresentata da titoli quali Skyline e World Invasion, pellicole fanta-catastrofiche che puntano molto su un impatto visivo roboante e poco su eventuali riflessioni filosofeggianti. Da par suo, l'indiscusso "maestro" di questo sottogenere, ovvero Roland Emmerich, decide un po' a sorpresa di abbandonarlo momentaneamente per dedicarsi al period drama: Anonymous, scritto dal John Orloff già premiato per la miniserie Band of Brothers, è interessante nel concept e ben costruito narrativamente, ma un po' loffio nella messa in scena ed appesantito da un'eccessiva lunghezza.

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Non è stata comunque, certamente, la sola Hollywood ad essere protagonista di questo 2011 di celluloide, vista la forte presenza sui nostri schermi (e, in qualche caso, i notevoli incassi) di pellicole europee: l'esempio più lampante, e quello che meglio potrebbe riequilibrare certi giudizi eccessivi sui gusti del nostro pubblico (e indurre i distributori a una conseguente riflessione) è il recente The Artist, film quasi interamente muto e raffinata riflessione metacinematografica sul passaggio al sonoro, tra i protagonisti dell'ultimo Festival di Cannes. Il film di Michel Hazanavicius, che ha fatto incetta di nomination ai Golden Globes e si candida a diventare protagonista alla prossima Notte degli Oscar, ha totalizzato un'ottima media di spettatori per numero di sale nei primi giorni di programmazione, superato solo dalla contemporanea uscita di Almanya - La mia famiglia va in Germania, altro sorprendente successo per una pellicola di nicchia che affronta, in chiave di commedia, le difficoltà di una famiglia turca emigrata in Germania ormai da tre generazioni. Tra le più importanti uscite europee della stagione sono poi da ricordare altri protagonisti dell'ultima, ricchissima edizione del festival della Croisette: parliamo di "mostri sacri" come il Lars Von Trier di Melancholia (struggente ballata sul mal di vivere su uno sfondo apocalittico, che avrebbe avuto molte più chance per la Palma d'Oro se non fosse stato per l'infelice provocazione del suo autore su un tema tuttora delicatissimo, come l'antisemitismo) e di un insolito Pedro Almodovar che inquieta e convince col suo La pelle che abito; dello splendido e tesissimo Drive di Nicolas Winding Refn (autore di cui abbiamo potuto vedere, distribuito con due anni di ritardo, anche il precedente Bronson) con un Ryan Gosling anche qui in stato di grazia; del toccante Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne, vincitore del Gran Premio della Giuria; degli apologi sulla solidarietà offerti da due registi diversi, ma entrambi molto attenti ai temi sociali, come Aki Kaurismaki e Robert Guédiguian nei loro rispettivi e apprezzati Miracolo a Le Havre e Le nevi del Kilimangiaro. Anche il cinema inglese si gioca le sue ottime carte, non solo con l'uscita incredibilmente tardiva dell'importante This is England di Shane Meadows (datato addirittura 2006) ma anche col ritorno di due dei suoi autori di punta come Mike Leigh e Ken Loach, con i loro rispettivi Another Year e L'altra verità: intenso e realistico dramma familiare (e collettivo) il primo, insolito thriller ad ambientazione bellica il secondo, genere che ha l'ultimo precedente, nella filmografia del regista, nel suo L'agenda nascosta, risalente al 1990. E' impossibile non citare, infine, l'ultima opera di un maestro come Aleksandr Sokurov, che con la sua elegante e complessa versione del Faust ha ottenuto il meritato Leone d'Oro all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, ma anche il raffinatissimo, divertente e cinico kammerspiel di un Roman Polanski in stato di grazia, quel Carnage impreziosito dal suo quartetto di straordinari interpreti (Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly) e anch'esso applauditissimo al Lido.

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Se, tra i film visti proprio a Venezia, sono ancora in cerca di un distributore il noir in salsa pulp Killer Joe, diretto dal maestro William Friedkin, e pellicole più piccole e forse destinate all'invisibilità come il dramma Alps di Giorgos Lanthimos e il poetico Poulet aux prunes di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi, nei primi mesi del 2012 avremo almeno la possibilità di vedere due delle più intense e riuscite opere presentate al Lido, ovvero il duro Shame di Steve McQueen (interpretato da uno straordinario Michael Fassbender, premiato con la Coppa Volpi) e il toccante e quasi neorealistico A Simple Life, nuova eccezionale prova di una protagonista del cinema di Hong Kong degli anni '80 come Ann Hui. A Venezia ha riscosso consensi anche l'ultima pellicola di Emanuele Crialese Terraferma, che con lo stile diretto e antispettacolare dell'autore tratta un tema scottante come quello dell'immigrazione clandestina; tra le punte di diamante, il film di Crialese, di un'annata che per il cinema italiano ha fatto registrare poche novità di rilievo e molte conferme da parte dei "vecchi": un Pupi Avati che (col corollario della paura per il malore riportato dal regista durante la presentazione della sua ultima pellicola al Festival di Roma) con Il cuore grande delle ragazze continua la sua esplorazione nei tempi (e nei luoghi) di un passato color pastello, con una poetica che si fa sempre più intima e tendente all'autobiografia; uno dei migliori film del recente Nanni Moretti, quell'Habemus Papam che ha provocato ingiustificate polemiche negli ambienti vaticani e si avvale della grande e sofferta interpretazione di Michel Piccoli; il piccolo e personale ultimo film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, e l'altrettanto ricercato, "collettivo", e tardivamente distribuito, Sorelle mai di Marco Bellocchio. Sono certo da segnalare anche la trasferta in terra statunitense, molto discussa ma a parere di chi scrive assolutamente riuscita, di un regista come Paolo Sorrentino col suo atipico This Must Be The Place, l'ennesima pellicola strappa-polemiche (ma altrettanto forte nella sua idea di cinema) diretta da Michele Placido, ovvero Vallanzasca - Gli angeli del male, il politico Il gioiellino di Andrea Molaioli, altra prova convincente di un sempre più richiesto Toni Servillo.

Le commedie più o meno ben confezionate, ma sostanzialmente anonime, continuano a caratterizzare una grande fetta della nostra produzione, da La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo (altro protagonista dell'ultima, non esaltante edizione del Festival del Film di Roma) ai sostanzialmente inutili sequel Ex: Amici come prima! (in cui i fratelli Vanzina riutilizzano - peggio - la formula che portò alla fortuna del prototipo di Fausto Brizzi) e Femmine contro maschi, fino alla discutibilissima operazione voluta da Neri Parenti di Amici miei - Come tutto ebbe inizio, discutibile non tanto per il reato di "lesa maestà" verso Mario Monicelli, quanto per la qualità decisamente bassa della sua scrittura. Lo stesso, puntuale cinepanettone arrivato da poco nelle nostre sale (Vacanze di Natale a Cortina, quest'anno diretto da Parenti e co-sceneggiato dai Vanzina) ha fatto registrare incassi decisamente inferiori alle aspettative, segno probabile di una stanchezza da parte del pubblico, anche di quello più distratto, per formule ormai stantie e forse, in gran parte, depotenziate anche a livello commerciale.

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Abbiamo appena fatto cenno al secondo importante festival della penisola, quello di Roma, manifestazione che, per un motivo o per l'altro, stenta tuttora a trovare una sua identità; continuando a vivacchiare tra poco esaltanti frammenti di anteprime (quest'anno abbiamo assistito a 15 minuti di Hugo Cabret 3D di Martin Scorsese e ad altri 15 del già citato The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1) e un concorso che offre sì qualche buon titolo ma sembra più che mai privo di un'idea e di un percorso di assemblaggio alla sua base, oltre che di vere strategie di valorizzazione. Si sono rivelati comunque apprezzabili, tra i film visti nella Capitale, il divertente vincitore Cosa piove dal cielo?, curiosa e riuscita commedia incentrata sullo spaesamento di un giovane cinese appena giunto in un paese sconosciuto, i thriller europei Babycall e The Woman in The Fifth, il dramma al femminile Voyez comme ils dansent di Claude Miller. Frammenti, apprezzabili, di buon cinema all'interno di una manifestazione che ancora non riesce ad assemblarli in una proposta coerente e credibile nel suo insieme. Un festival dalla fisionomia decisamente più riconoscibile, pur nelle trasformazioni attraversate nei suoi quasi 20 anni di storia, è quello di Torino, che quest'anno ha tributato il premio per il miglior film alla commedia islandese Either Way, incentrata sulla routine giornaliera di due operai della manutenzione stradale, riservando invece il riconoscimento speciale della giuria a un ex-aequo tra il dramma francese 17 ragazze (già acquistato per la distribuzione in sala) e la commedia di produzione libanese Ok, Enough, Goodbye. Una manifestazione che ribadisce il suo occhio privilegiato sulle produzioni indipendenti e su un cinema meno battuto dalla grande distribuzione, e che ancora una volta trova uno dei suoi punti forti nelle retrospettive e nei "percorsi" personali dedicati ai singoli registi: quest'anno, imperdibile la retrospettiva su un maestro del cinema statunitense come Robert Altman, e particolarmente valido l'approfondimento sul regista giapponese Sion Sono, cineasta originale e di grande inventiva, di cui attendiamo in sala il recente (e già apprezzato a Venezia) Himizu.

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Il cenno a un cineasta orientale, di certo tra i più originali tra quelli emersi nel decennio da poco conclusosi, non può che darci lo spunto per ricordare i pochi, validi prodotti delle cinematografie asiatiche che sono riusciti ad attraversare le strette maglie della nostra distribuzione: da Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento, opera di animazione targata Studio Ghibli e scritta dal maestro Hayao Miyazaki, al chanbara di Takashi Miike 13 assassini (in attesa che arrivi nelle sale il suo ultimo Harakiri, già presentato a Cannes), dal raffinato rifacimento coreano del classico The Housemaid di Im Sang-soo al lirico Poetry di Lee Chang-Dong, dal singolare western (risalente addirittura al 2008) Il buono il matto il cattivo di Kim Ji-Woon al wuxia in salsa thriller Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma di Tsui Hark. Proprio gli ultimi tre titoli sono arrivati in Italia grazie alla distribuzione della Tucker Film, espressione del CEC di Udine e pioniera della diffusione in Italia del cinema orientale con una manifestazione come il Far East Film Festival.
Un cenno, infine, non può non andare a due pellicole ambientate anch'esse nel continente asiatico, ma in particolare in quella parte di esso perennemente dilaniata da conflitti e tensioni che è il Medio Oriente: parliamo de La donna che canta di Denis Villeneuve, dramma di produzione canadese che si svolge in un imprecisato paese mediorientale in guerra, narrato con rigore e con un fortissimo impatto emotivo; e dell'iraniano Una separazione di Asghar Farhadi, splendido dramma familiare che si fa prima thriller, e poi riflessione collettiva sulle contraddizioni, i ritardi ma anche le speranze, di un paese la cui società civile è più viva e "mobile" di quanto si sia normalmente portati a credere.

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