Hirokazu Koreeda: tra l'infanzia e la morte, il cinema

Il regista giapponese, ospite della sezione Alice nella città del Festival di Roma, ha incontrato pubblico e giornalisti in una interessante discussione sul suo cinema, sul suo percorso di regista e sui temi portanti dei suoi film.

Tra gli ospiti più importanti, ma anche ingiustamente meno pubblicizzati, di questa ottava edizione del Festival del Film di Roma, c'è senz'altro il regista giapponese Hirokazu Koreeda. Tra gli esponenti più rappresentativi, e più internazionalmente considerati, dell'attuale cinema nipponico, già presente più volte nei più importanti festival internazionali (l'ultima delle quali a Cannes, col suo bellissimo Like Father, Like son) Koreeda è stato protagonista, qui a Roma, di un mini-focus sui suoi film organizzato nella sezione collaterale Alice nella città: il suo sguardo sull'infanzia, sempre molto originale e personale, ha reso il suo I Wish e il già citato Like Father, Like Son particolarmente adatti ad essere presentati in questa cornice. Il regista ha successivamente incontrato pubblico, giornalisti e curiosi intervenuti nella cornice del teatro MaXXI, per un interessante excursus sul suo cinema, i suoi temi prediletti, e il mestiere di filmaker visto più in generale.

Ci ha sorpreso, a Cannes, l'entusiasmo di Steven Spielberg per il suo ultimo lavoro: capita raramente che un presidente di giuria esprima elogi così forti per un film. Come ha vissuto quel momento? Vede favorevolmente l'idea che Spielberg possa farne un remake americano?
Hirokazu Koreeda: Già in occasione di Cannes, abbiamo avuto diverse offerte per un remake americano. Alla fine è stato firmato un contratto con la Dreamworks. Ho dato piena fiducia a Spielberg, e sono molto onorato che ne realizzerà un remake. Sarà girato tra 2-3 anni, probabilmente: io andrò a trovarlo sul set, ma non metterò bocca nelle sue scelte perché gli ho dato piena fiducia.

Nel suo film, l'attore che interpreta il padre di famiglia borghese è molto famoso in Giappone. Ha già un'idea di quali potrebbero essere gli attori americani?
E' un argomento di cui abbiamo già trattato, coi distributori americani, e ci siamo molto divertiti a fare dei nomi. Per quel ruolo, sono venuti fuori i nomi di Tom Cruise, Brad Pitt e Christian Bale; per l'altro papà, invece, siamo stati tutti d'accordo sul nome di Jack Black. Ci siamo divertiti davvero molto, a fare queste ipotesi, ma nella realtà non c'è niente di definitivo.

Ci sono stati elementi autobiografici che hanno fatto nascere questa storia?
Le cose che mi hanno portato a creare questo film sono state sostanzialmente due: da una parte la nascita di mia figlia, evento che mi ha portato emozioni, ma anche forti dubbi: mia moglie, infatti, da un giorno all'altro, da moglie è diventata madre. Dall'altra c'è il fatto che io, invece, non sentivo in me questa grande trasformazione come padre: per questo, mi sono interrogato su come il tempo passato coi figli potesse "creare" il ruolo di padre. Io, a causa del mio lavoro di regista, sto molto fuori di casa: durante le riprese di I Wish, per esempio, sono stato fuori per ben un mese e mezzo. In quel periodo, il rapporto tra me e mia figlia si è letteralmente resettato: nella sua testa, non avevo più il ruolo di padre. Ricordo che eravamo molto tesi, ognuno di noi stava zitto in un angolo della stanza. E' stata una cosa che mi ha fatto male, ma che mi ha spinto anche a rimettermi in gioco, ad avere forti dubbi: il giorno dopo, andando in ufficio, mia figlia mi ha salutato dicendomi "Ci vediamo presto". Questo mi ha fatto molto pensare: ho pensato che stavo perdendo il mio posto di padre, e ho capito che è importante il tempo che si passa coi propri figli, piuttosto che la linea di sangue che li lega a noi. Nel film si pone una scelta obbligatoria: la linea di sangue o l'affettività? Sono stati questi i motivi che mi hanno fatto girare un film incentrato sullo scambio dei bambini in culla.

Il film è il percorso di formazione di adulto che impara a diventare padre. Ha fatto ricerche a proposito di questo problema? Una volta gli scambi in culla non erano così infrequenti. Nella realtà, capitava davvero che ci si scambiasse i figli da giorno all'altro?
Nel realizzare il film mi sono documentato: ho letto molti articoli di giornale su episodi del genere, che erano molto frequenti negli anni '70. Allora, i bambini venivano sempre ri-scambiati, e le famiglie, da allora, non si incontravano più. Questo sembra assurdo, secondo gli standard odierni, ma allora in Giappone si preferivano i legami di sangue all'affettività. Il protagonista del mio film è fortemente legato alla tradizione giapponese: lui fa questa scelta, e a quel punto vengono minate tutte le basi della sua vita. E' un fatto sociale, questo: in Giappone, purtroppo, l'adozione è un sistema che non si è radicato, e si dà ancora molta importanza ai legami di sangue.

Il prevalere dei sentimenti sulle regole è anche un modo per parlare del Giappone odierno? C'è nel film una riflessione sulla necessità di andare, a volte, oltre le regole?
Questa è una chiave di lettura a cui sinceramente non avevo pensato. Una chiave di lettura che può sovrapporsi a questa, comunque, può essere quella che contrappone le due figure paterne: una proiettata tutta verso il futuro, la felicità, la famiglia; e l'altra che dice "ciò che posso fare domani, lo faccio domani". Sono due figure contrastanti, ognuna con un approccio diverso alla propria vita: due facce della società giapponese.

Cosa la spinge ad occuparsi spesso del mondo dell'infanzia?
Non c'è un'idea precisa che mi spinge a prendere i bambini come tema conduttore: è piuttosto il fatto di guardare il mondo attraverso gli occhi di un bambino, che vede le cose da una prospettiva diversa rispetto a quella degli adulti. Hanno detto, spesso, che nei miei film i personaggi principali sono i morti e i bambini: entrambi mi interessano, in quanto i morti possono dare un giudizio da fuori, non essendo più coinvolti nelle vicende terrene, mentre i bambini sono come una lente attraverso cui guardare la vita da dentro. Non essendoci, nel mio universo, l'essere chiamato Dio, queste sono due entità fondamentali per la vita.

Nella civiltà occidentale la morte è un tabù: fare un film che ne parli, in Occidente, è molto difficile. In Oriente questo aspetto è visto in maniera diversa?
Questo tema mi fu già sottolineato nel 1998, quando feci After Life. Mi dissero che i morti non sono qualcosa che noi giapponesi rifiutiamo, ma al contrario entità con cui conviviamo: nella nostra cultura, non c'è il rifiuto della morte, ma questa viene considerata al contrario parte della vita. È tipico della cultura orientale vedere la vita e la morte come due concetti molto uniti. In agosto abbiamo anche una festività simile a quella dei morti in Occidente: in quell'occasione, ci si reca nei cimiteri per andare a "riprendersi" l'anima dei defunti, che così viene riportata per un po' di tempo a casa. Nella nostra cultura è presente l'idea di fare una vita decente, tale che si possa decentemente manifestare ai defunti: questo perché il ruolo della morte, nella nostra vita, è preponderante. Forse è un pensiero antiquato: ma in una società come la nostra, in cui non c'è molta fede, il culto dei morti può essere fondamentale.

Quali sono vantaggi e svantaggi nel dirigere bambini?
È una cosa molto difficile lavorare con i bambini, io lo faccio da 10 anni; non do mai loro la sceneggiatura, quindi quando iniziano a recitare non sanno la storia. Cerco sempre di tirare fuori al meglio da ogni bambino le parole che utilizza nella vita quotidiana, le sue espressioni, già in fase di selezione; questo processo è molto laborioso. Durante le riprese, mi metto accanto a loro e gli descrivo la scena, e cerco di tirar fuori con naturalezza le parole che loro usano nel quotidiano.

Lei ha diretto anche una serie tv intitolata Going My Home. Come si è trovato con un linguaggio diverso rispetto a quello del cinema?
Io sono cresciuto con le serie tv, in Giappone, quindi mi ha fatto piacere farla. Non ho avuto limitazioni, ho potuto scegliere il cast come al cinema, e ho scritto la sceneggiatura in piena libertà: mi sono divertito, ma il riscontro dell'audience purtroppo non è stato buono. Se avrò un'altra occasione, comunque, lo rifarò senz'altro.

Quanto è importante, per lei, instaurare un buon rapporto con gli attori?
Il rapporto, anche umano, è fondamentale nella realizzazione di un film. Parlando in particolare dei bambini, considerato che non do loro la sceneggiatura, cerco di dar loro completa fiducia: se mi fido, riesco a fare instaurare autonomamente un rapporto tra l'attore adulto e l'attore bambino. Io cerco di uscire dalla scena, in quel momento: faccio in modo che si crei un legame forte, in quel contesto, un pezzo di vita.

Ma i bambini-attori vedono i film, dopo?
Sì, assolutamente. Ovviamente loro non sanno, fino all'ultimo, di cosa il film tratti. Succede ogni volta che quando lo vedono, restano molto sorpresi.

Tornando al remake occidentale: come si pensa si possano trasportare, in Occidente, certi approcci tipicamente giapponesi a certe tematiche, come i legami di sangue o la scuola?
Non lo so nemmeno io, a dire il vero. E' difficile riportare certi elementi tipici: ad esempio, nel mio film, la moglie del protagonista sta sempre "tre passi indietro" rispetto al marito, è quest'ultimo che ha il potere decisionale su tutto. Famiglie del genere in Giappone sono più rare che in passato, certo, ma sono ancora presenti: se si trasporta una realtà del genere, così com'è, in un film americano, lo spettatore potrebbe pensare che in quella coppia c'è qualcosa che non va. Ho dato a Spielberg completa libertà di adattare questi tratti, restando fedele alla sceneggiatura. Anche i diritti di After Life sono stati comprati dalla Fox, ma dopo 15 anni ancora non ne hanno fatto niente. Nessuno sa invece è stato acquistato da una casa inglese, e pare sia in fase di produzione: spero che almeno questo veda la luce!

E se avesse lei la possibilità di girare un remake giapponese di un film di Spielberg, quale sceglierebbe?
Non ho mai visto i suoi film con l'idea di farne un remake... forse però, tra i suoi lavori, A.I. Intelligenza artificiale è quello che mi attira di più: lo sento a me affine, perché ho a cuore le storie di abbandono di bambini.

Quali sono i suoi riferimenti cinematografici principali? Lei viene spesso definito l'erede di Yasujiro Ozu...
Purtroppo però non sono Ozu! In realtà, da giovane volevo diventare uno scrittore, all'università mi ero iscritto a Lettere. Poi, a un cineforum vicino all'università, ho visto due film di Federico Fellini, precisamente La Strada e Le notti di Cabiria: da lì, mi sono avvicinato al cinema italiano e in particolare al neorealismo, con i film di Michelangelo Antonioni, Roberto Rossellini e Luchino Visconti. Sono stati questi i registi che mi hanno aperto un mondo: allora ho abbandonato l'idea di fare lo scrittore, e ho maturato il desiderio di diventare un regista. Prima ancora avevo visto un film di Franco Zeffirelli sulla vita di San Francesco: Assisi, tra l'altro, è stato il primo luogo estero che ho visitato nella mia vita, e mi sono avvicinato alla cultura italiana proprio attraverso questo film. Mi piaceva il fatto che non giudicasse nettamente il bene e il male. Il mio è stato senz'altro un percorso atipico per un regista.