Diviso tra anima e corpo, Pedro Almodovar presenta La pelle che abito

Accompagnato da Antonio Banderas e Elena Anaya, il regista spagnolo svela i misteri di un dramma intimista dalle tinte noir.

Com'è riuscito un ex ragazzo nato e cresciuto nella Spagna franchista a trasformarsi in un cineasta internazionalmente apprezzato per il suo stile appassionatamente spudorato? Il segreto di questo successo è da ricercare nel passato cinematografico di Pedro Almodovar, da più di vent'anni regista di riferimento nell'evoluzione culturale del suo paese. Dopo essersi gettato alle spalle un'infanzia repressa dalla ferrea educazione salesiana e aver trascorso ben dodici anni al servizio della Compagnia Telefonica Nazionale, nel 1972 il giovane Pedro abbraccia l'incognita del teatro d'avanguardia, utilizzando la movida madrilena come luogo su cui forgiare uno stile narrativo sempre più personale. Superata la fase più sperimentale e divenuto noto al grande pubblico grazie a Donne sull'orlo di una crisi di nervi, cui seguono Legami!, Tacchi a spillo, Il fiore del mio segreto e Carne tremula, Almodovar riceve l'investitura più ambita nel 2000 grazie a Tutto su mia madre che ottiene la Palma d'Oro per la regia al Festival di Cannes e L'Oscar per la miglior pellicola straniera. A questo punto la sua variopinta narrazione delle umane debolezze non risente di tentennamenti e incertezze ma, forte di un equilibrio finalmente raggiunto, si avventura alla scoperta di nuovi percorsi dell'animo di cui sono protagoniste assolute le donne. Così, attraverso il volto di Carmen Maura, Penelope Cruz e Victoria Abril, Almodovar si diverte e commuove a tratteggiare il profilo di una femminilità declinata attraverso molte forme, siano esse quelle di madre, figlia, amante o transessuale. Un percorso, questo, che non abbandona nemmeno nella sua ultima fatica La pelle che abito, nonostante un ritrovato Antonio Banderas nel ruolo principale di narratore. Distribuito dalla Warner Bros con 300 copie dal 23 settembre e liberamente tratto dal romanzo Tarantola di Thierry Jonquet, il film affida l'apparente svolgimento dei fatti alla figura del chirurgo Robert Ledgard, ma dietro l'ossessione di plasmare a colpi di bisturi un corpo maschile per dargli forme femminili, si annida il rimpianto per una moglie scomparsa e il desiderio di vendetta per una figlia abusata. Un thriller dell'anima, dunque, dalle tinte accese di cui Almodovar è pronto a svelarci ogni segreto, sostenuto dall'appoggio di Antonio Banderas e di Elena Anaya.

Signor Almodovar lei è regista, sceneggiatore e produttore dei suoi film, non crede che gestire un'attività creativa priva di limiti esterni sia in qualche modo rischioso?
Pedro Almodovar: Non sono assolutamente onnipotente in fase di ripresa. Come qualsiasi altro regista devo sottostare a delle regole produttive e a vincoli organizzativi che giustamente condizionano la mia attività. Anche se può sembrare esattamente il contrario, io non detengo un potere assoluto ma cerco di comportarmi con buon senso evitando stranezze inutili. L'unico ambito in cui credo di rappresentare un'autorità unica è quello artistico. Sono io a decider il tono del film, il significato della storia, il modo in cui mi accosto al genere per poi tradirlo, il mio rapporto con gli attori, la musica che scelgo e l'aspetto visivo. In questo modo un regista si prende gli onori dell'autorialità ma sostiene anche il peso delle sue responsabilità. Sono io a rispondere direttamente sia del successo che dell'insuccesso del lavoro ed è per questo motivo che ai membri dello staff chiedo ogni sforzo possibile per concretizzare la mia personale visione.

In più di vent'anni di carriera lei ha utilizzato l'estremo come elemento narrativo attraverso cui produrre bellezza e poesia. Nel caso specifico de La pelle che abito, però, sembra aver rinunciato a questo caratteristica in nome di una certa freddezza formale.
Pedro Almodovar: L'elemento centrale del film è un abuso di proporzioni enormi e per poter rendere pienamente la forza devastante di questo tema sapevo di dovermi spingere verso degli estremi narrativi. L'unica differenza è che questa volta ho scelto di applicare in modo consapevole uno stile asciutto e sobrio, andando ad evitare lo splatter. Se avessi operato in modo determinante anche sull'aspetto visivo avrei ottenuto un effetto eccessivo per il pubblico, mentre grazie ad una certa sobrietà ho raggiunto un risultato più potente ed emotivamente sconvolgente. Forma a parte, comunque, l'intera vicenda è costruita intorno all'immutabilità dell'identità. Nonostante la scienza abbia raggiunto livelli incredibili nella manipolazione del corpo umano e delle sue forme, non potrà mai aver accesso all'essenza dell'individuo, trattandosi di una materia intangibile, quasi incorporea, non sottoponibile ad alcuna manomissione.

Un momento essenziale del suo lavoro è la fase di scrittura. Come si rapporta con una materia che, lontano dall'essere solo pura fantasia, nasce e si sviluppa quasi sempre dalla sperimentazione personale?
Pedro Almodovar: Quando scrivo uso una tecnica più da romanziere che da sceneggiatore. In questo modo le mie storie - quasi sempre quattro o cinque contemporaneamente - mi accompagnano per un lungo arco temporale e si sviluppano in modo più o meno omogeneo. Quando arriva il momento della scelta, poi, scopro di averne sempre due pronte per essere realizzate. Questa è esattamente la situazione in cui mi trovo al momento, ma non vorrei parlarne per i prossimi sei mesi. Debbo ancora dedicarmi alla promozione americana di La pelle che abito e sono in attesa di sapere i risultati per la candidatura all'Oscar come miglior film straniero. Posso solo dire che potrei finalmente accontentare tutti coloro che chiedono a viva voce una nuova commedia.

Signor Banderas, dopo più di dieci anni di lontananza è tornato a lavorare con Almodovar. Com'è stato ritrovarsi artisticamente, crede che il suo stile sia variato diventando più consapevole e maturo?
Antonio Banderas: Qualunque cosa possa accadere nel corso della mia vita non potrò mai dimenticare cosa ha significato per me girare ben sei film con Pedro. Ho avuto la possibilità di condividere una parte del mio percorso professionale ed umano con un artista capace di rompere le regole del gioco, distaccandosi completamente dallo stile del cinema spagnolo continuando a rischiare e pagare in prima persona per i suoi azzardi. Non credo assolutamente che sia cambiato. Probabilmente è cresciuto, ma sicuramente non è invecchiato. La sua creatività esplosiva è ancora del tutto intatta, vogliosa di esplorare territori sempre più complessi. Un discorso diverso si deve fare per la forma del suo cinema, diventato più minimalista e pulito dal punto di vista concettuale. Riflettendo sul passato, noto che in alcuni film come Legami! e quest'ultimo La pelle che abito, Pedro si sia sporcato le mani con la materia narrata e questo mi porta costantemente a riflettere sulla natura del cinema, sulla sua capacità di modificarlo lanciandosi continuamente in un salto nel buio. E' per questo motivo, probabilmente, che dopo aver realizzato ottantacinque film sono disposto a rischiare il tutto per tutto solo con lui. Lavorare nuovamente con Pedro ha significato aprirmi ad una nuova conoscenza di me stesso, portando alla luce inaspettate sfumature della mia recitazione a ben ventuno anni dal nostro primo incontro.
Se l'essenza dell'individuo non è modificabile altrettanto non si può dire per la sua fisicità. Inevitabile, dunque, una riflessione sulla chirurgia plastica e il suo utilizzo fuori e dentro il cinema.
Pedro Almodovar: In Spagna si dice che il volto è lo specchio dell'anima, ma oggi non è più possibile affermarlo con tanta sicurezza. Personalmente non mi pongo nè a favore nè contro l'utilizzo della chirurgia estetica, tutto dipende dal modo in cui viene applicata. Il problema essenziale è che l'identità dell'individuo non si esprime tramite la propria pelle o il suo colore. Però credo che la pellicola vada molto oltre l'intervento chirurgico, cercando di parlare al futuro dell'umanità. Grazie alle sperimentazioni folli del mio protagonista ho avuto la possibilità di concentrare l'attenzione sull'evoluzione della transgenesi, che rappresenta un enorme traguardo scientifico ma anche un'arma incredibilmente pericolosa. Sono sicuro che nel corso di questo secolo ci troveremo di fronte alla creazione di una nuova forma di umanità, sicuramente più sana ma, soprattutto, inquietantemente perfetta. Non so dire quale sarà il suo nome ma avrà una forma determinata dall'uomo stesso. Attraverso l'utilizzo dei processi sintetici saremo in grado di creare la cellula della vita e questo porterà ad uno scontro frontale con tutta la cultura della creazione divina, ma ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente è l'immenso potere di genesi affidato alla discernimento di una creatura sostanzialmente imperfetta. Per quanto riguarda l'aspetto puramente cinematografico, invece, preferisco di gran lunga lavorare con volti che corrispondono fedelmente alla traiettoria delle loro vite. Non ho alcun interesse particolare a collaborare con attrici ritoccate, il massimo che ne potrei ricavare sarebbe una sit-com dal titolo Le operate. Potrei proporre il progetto ad un produttore americano e fare un casting a Los Angeles.

Signor Almodovar, La pelle che abito è un melò travestito da thriller. Quali forme cinematografiche hanno influenzato quest'opera così complessa nella forma come nella sostanza?
Pedro Almodovar: Fin dall'inizio ho avuto l'intenzione di procedere seguendo uno stile assolutamente personale, poi, durante la lavorazione, mi sono imbattuto in alcuni fantasmi di celluloide che ho accolto con calore. Mi sto riferendo chiaramente a Frankeistein e a La donna che visse due volte. Ad ognuno di loro ho dato il benvenuto ma non ho mai manifestato l'intenzione di realizzare un film seguendo un percorso definito da altri.