A colloquio con Miike, in bilico tra mainstream e follia creativa

Intervistato durante una tavola rotonda breve ma intensa, Miike si dimostra prodigo di particolari nel raccontare la genesi del suo '13 Assassins', che rappresenta la sua prima incursione nel genere dei film in costume. Il regista descrive l'ultima fase del suo percorso stilistico, segnata da un equilibrio tra le convenzioni del cinema mainstream e le istanze della sua personale poetica.

13 Assassins potrebbe essere la definitiva consacrazione internazionale di Takashi Miike. Sebbene il suo talento follemente eversivo e genuinamente anarchico non abbia certo bisogno di ulteriori conferme presso il pubblico cinefilo più smaliziato, il regista nipponico, che può ormai vantare una filmografia sterminata, non ha ancora ricevuto un riconoscimento ufficiale da parte della platea più istituzionalizzata dei festival Occidentali. L'occasione giusta potrebbe essere l'esordio di Miike nel genere del jidaigeki, film in costume con cui tutti i grandi maestri giapponesi devono prima o poi fare i conti. Il suo 13 Assassins, presentato in concorso a Venezia (ma il prolifico e schizofrenico autore è presente fuori concorso anche con la doppietta demenziale-supereroistica di Zebraman e Zebraman 2) rielabora un classico del 1963 riuscendo sorprendentemente a mantenere un equilibrio tra convenzioni del genere e istanze personali della sua poetica. Intervistato durante una tavola rotonda breve ma intensa, Miike si dimostra prodigo di particolari nel descrivere l'ultima fase del suo percorso registico entro i canoni del mainstream. Il regista scende nel dettaglio su alcuni aspetti legati alla lunga fase di realizzazione di 13 Assassins, affrontando vari argomenti, tra cui il rapporto con il genere del jidaigeki e con l'opera originale, il tema della violenza e il valore politico della sua opera.

13 Assassins è uno dei progetti a più alto budget che ha mai realizzato. Ha dovuto tenere a freno la tua libertà creativa?
Takashi Miike: No, in realtà 13 Assassins non è un prodotto a budget così elevato, almeno rispetto agli standard di Hollywood, ma anche per il Giappone non può essere definito un vero e proprio blockbuster. Ho avuto più tempo per realizzare questo film e credo comunque di essere riuscito a mantenere una certa libertà espressiva, pur entro gli schemi più rigidi del cinema mainstream.

In effetti credo che con 13 Assassins lei sia riuscito, pur rispettando i canoni del genere classico del jidaigeki (film in costume) e l'impianto originale dell'opera, a trasmettere ugualmente la propria poetica e la sua personale visione cinica e disillusa sulla violenza.
Il film è un remake del classico Jusan-nin No Shikaku, diretto nel 1963 da Eichi Kudo, all'epoca uno dei grandi maestri del jidaigeki. Ma non è un film della mia generazione, infatti quando uscì nei cinema io avevo solo tre anni. Si tratta di un'opera realizzata nel periodo d'oro del cinema giapponese, quando dominavano grandi major che potevano permettersi di realizzare film estremamente costosi. Anche i giapponesi nel frattempo sono cambiati, e il film originale credo che non rispecchi più l'attuale sentire del pubblico. Mi piacerebbe tuttavia che anche le persone che hanno apprezzato il vecchio 13 Assassins, realizzato ben 48 anni fa, potessero apprezzare anche il mio adattamento.

Ritengo il suo film presenti un messaggio politico molto forte. I protagonisti sono dei personaggi ambigui, che non sempre agiscono in maniera giusta, soprattutto quando sono in gruppo. Penso che i loro comportamenti rispecchino una precisa dichiarazione di condanna politica contro alcuni aspetti della nostra società.
Sì, penso sia possibile rintracciare alcune istanze politiche nel film. I giapponesi rivelano spesso un atteggiamento debole e senza speranza nei confronti della politica, e anziché agire direttamente preferiscono lamentarsi o incolpare in maniera generica il governo e i politici. Io sostengo, invece, che le persone dovrebbero in primo luogo capire che obiettivo raggiungere nella loro vita e tentare di realizzarlo con le proprie forze, agendo in prima persona per cercare di guadagnarsi la felicità. Spero soprattutto di avere trasmesso questo messaggio nel film.

Il personaggio che più mi ha incuriosito nel film è il ragazzo che vive nella foresta, e che è all'inizio scambiato dagli altri per un tanuki (ovvero per un procione, animale che secondo la tradizione giapponese può assumere anche sembianze umane). Il fatto che il personaggio non muoia anche se ferito gravemente mi fa presumere che si tratti davvero di un tanuki...
Non saprei se il personaggio sia un tanuki, oppure se alla fine del film continua a vivere o è un fantasma. Preferisco che sia il pubblico a decidere su questo aspetto... Posso dire che si tratta di un personaggio che rispecchia soprattutto un particolare modo di vivere in maniera libera e indipendente, del tutto svicolato da imposizioni e condizionamenti sociali. In un certo senso agisce come un animale (infatti non usa la spada per combattere, ma oggetti che trova in natura) seguendo il proprio istinto e non curandosi delle regole di convivenza all'interno del gruppo, oppure delle rigide gerarchie sociali che vigevano nel Giappone del passato. Amo particolarmente queste figure di outsiders fuori dal sistema, che rappresento spesso nei miei film.

La violenza è da sempre uno dei nodi cardine del suo cinema, tuttavia in 13 Assassins i particolari più crudi sono spesso fuori campo. Da cosa deriva questa scelta?
Ho tentato il più possibile di rispettare le convenzioni del genere e di rimanere fedele all'opera originale. Con 13 Assassins il mio obiettivo è stato quello di fare un passo indietro come regista e di porre in secondo piano il mio stile personale. Non si tratta solo di un film di combattimenti, ma anche di un'opera che approfondisce i comportamenti e le psicologie dei personaggi, quindi ho cercato anche di dare spazio ai dialoghi e non soltanto a sequenze d'azione.

13 Assassins è uno dei film giapponesi in cui le riprese sono durate più a lungo. Lo aveva progettato sin dall'inizio o è capitato per caso?
Mi aspettavo che sarebbe stato lungo, perché si tratta di una storia che ha ben tredici differenti protagonisti. Inoltre ciascuno di essi all'inizio del film controlla le proprie emozioni, che traspaiono in maniera evidente soltanto alla fine. Approfondire le psicologie e le dinamiche di ogni carattere richiede molto tempo. Penso che la prima parte del film, anche se statica e priva di azione, sia molto importante, perché consente di fare luce sulle vite dei personaggi, anche per giustificare la loro scelta di sacrificarsi fino alla fine per il proprio ideale.

Questo è per lei il primo vero e proprio film di samurai che ha mai realizzato. Come mai si è dedicato a questo genere tradizionale solo adesso?.
È da molto tempo che volevo realizzare un jidaigeki, ma si tratta di un genere di film molto costoso, e per questo motivo è molto difficile convincere gli studios a realizzarlo. Attualmente i jidaigeki contemporanei non rispettano i soggetti originali, ma sono soprattutto delle love story. Opere come le mie, che tentano di fare riferimento allo spirito originale e di focalizzarsi soprattutto sul tema della violenza, sono estremamente difficili da realizzare oggi. Ma finalmente dopo molti tentativi sono riuscito a persuadere i produttori, e adesso sono felice di esserci aver ottenuto questa possibilità.

Le sue opere ottengono un maggior riscontro in Giappone o all'estero?
In Giappone la gente dice che sono un autore di successo, ma in realtà i miei film ottengono buoni incassi al box office soltanto quando sono coinvolti attori famosi o celebrità del mondo dello spettacolo. Sono comunque soddisfatto del successo che sinora sono riuscito a ottenere sia in patria, sia presso il pubblico internazionale.