Rafi Pitts presenta il suo cacciatore a Torino 2010

Il nostro incontro con il regista di The Hunter - Il cacciatore, film iraniano che racconta la discesa agli inferi di un uomo che perde la moglie in un conflitto a fuoco tra polizia e manifestanti

Iraniano di nascita, ma europeo di formazione (laurea a Londra, "tirocinio" cinematografico in Francia con Jacques Doillon e Jean-Luc Godard), Rafi Pitts presenta al Torino Film Festival il suo quarto lungometraggio, The Hunter - Il cacciatore, un dramma dalle forme rigorose che racconta la discesa agli inferi di un ex galeotto a cui viene uccisa la moglie. La successiva scomparsa della figlia fa precipitare Alì, il protagonista, nella crisi più profonda, tanto da indurlo ad uccidere un poliziotto, grazie alle sue mirabili doti di cecchino. A quel punto le forze dell'ordine inizieranno una vera e propria caccia all'uomo dagli esiti tragici. Ambientata nella Teheran dei nostri giorni, l'opera è stata girata durante l'ultima campagna elettorale presidenziale e le riprese sono terminate proprio prima della diffusione dei risultati che avrebbero confermato Ahmadinejad alla guida del Paese. Un elemento, questo, che traspare da alcune sequenze, senza dominare direttamente il film.

Si ha l'impressione fortissima che il film sia diviso in due parti distinte, la prima più "metropolitana", la seconda, in cui la caccia all'uomo si sposta nelle foreste vicino a Teheran, il paesaggio, con la sua potenza, sembra avere la meglio sui personaggi...

Rafi Pitts: Io non vedo tutte queste differenze. Diciamo che la prima parte del film è una giungla d'asfalto, così come la seconda. Ho immaginato di intrappolare il personaggio in un labirinto senza scampo. Le scene girate in città rendono bene, credo, il senso di isolamento che Alì vive nel profondo, nonostante la città attorio a lui sia frenetica. Questa condizione persiste anche nella seconda parte del film, quando i tre personaggi, il protagonista e i due poliziotti che gli stanno alle calcagna, sono circondati solo dalla natura. E' un paesaggio da cui non c'è fuga. Spero di aver reso queste sensazioni attraverso l'uso del sonoro, oltre che con le immagini. Penso al modo in cui abbiamo lavorato al rumore del traffico, che in realtà imitava il suono delle onde del mare o, al contrario, all'assenza di sonoro nelle scene ambientate nella foresta, dove ho tolto il fruscio delle foglie. Mi rimproverano spesso per l'assenza di dialogo nei miei film. E' una critica ingiusta, il sonoro è il dialogo del film.

Chi è il cacciatore e chi è la preda nel suo film? Rafi Pitts: Non so proprio dirlo. Volevo solo porre il numero maggiore di punti di vista e offrirli al pubblico, non do risposte. Credo che il dovere di un cineasta sia solo spingere il pubblico a farsi delle domande, anche se non piace alle autorità del nostro paese, una nazione in cui ci dicono cosa dobbiamo fare e cosa dobbiamo pensare. Una volta che è fatto, il film appartiene al pubblico, appartiene a voi.

Dove avete girato il film? Rafi Pitts: E' stato girato tra Teheran e le foreste a nord della capitale. Per quanto riguarda le sequenze cittadine, volevo restituire il fascino della città, davvero molto simile a Los Angeles. Le autostrade che vedete sono state volute fortemente dallo scià.

E' stato difficile girare durante la campagna elettorale?

Rafi Pitts: Non avete idea di quanto sia stato difficile ottenere i permessi. Da un certo punto siamo stati anche fortunati, perché il via libera è arrivato prima dell'esito delle elezioni, altrimenti sarebbe stato ancora più complicato. Nel nostro gruppo di lavoro c'era moltissima rabbia, un sentimento che è stato condiviso anche dalla popolazione. Ed è il motivo per cui ho finito per interpretare il ruolo principale. Non avrei voluto farlo, ma l'attore che avevo scelto ha avuto problemi personali e ho dovuto attivarmi io per non correre il rischio di perdere il visto della censura. A quel punto il film ha preso un'altra piega, diventando qualcosa di molto più personale.

Che atmosfera si respirava in quei giorni a Teheran? Rafi Pitts: Credo fermamente che i calcoli preventivi di un regista non servano a molto, non siano interessanti. Quello che succede non è mai quello che uno aveva immaginato. Devi lasciare che l'ambiente intorno a te respiri. Un film è qualcosa che è in costante cambiamento. Il suono delle proteste di strada è finito nel mio film. Se avessi deciso di ignorarli, mi sarei allontanato dalla realtà.

Che giudizio dà della cinematografia iraniana? Rafi Pitts: E' così difficile definire chi sia il regista e ancora più difficile spiegare chi sia il regista iraniano. Siamo tutti diversi l'uno dall'altro. Il cinema non ha confini è sempre stato così fin dall'inizio dei tempi e fin dai primordi del cinema. Antonioni, Kurosawa, Truffaut sono stati compresi anche in Iran, senza bisogno del manuale d'istruzione, perché quello che ci hanno mostrato nei loro film è l'emozione umana; è questo che travalica ogni confine, a patto di essere sinceri. In Iran si fanno circa 80 film all'anno, quelli che arrivano al pubblico mondiale però appartengono al movimento neorealista, Kiarostami, Makhmalbaf, che sono solo una minoranza. Non rappresentano l'intero cinema iraniano.

Ci parla della foto che vediamo nei titoli di testa? Rafi Pitts: E' un'immagine che appartiene alla mia adolescenza, all'epoca l'ho letteralmente rubata. E' stata scattata da Manucher Deghati, che poi ho conosciuto personalmente, durante il primo anniversario della Rivoluzione. Io ero per le strade di Teheran quel giorno. Se notate per terra c'è una bandiera americana disegnata nel dettaglio e sopra un gruppo di motociclisti pronti a rombare con le loro moto. Rappresenta la rivoluzione, ma secondo me ha anche dei riferimenti ironici al cinema americano degli anni '70. Nel mio paese il 70% della popolazione ha meno di 14 anni. Sono nati tutti dopo la rivoluzione, dopo che quella fotografia è stata scattata. Tutti si chiedono cosa ne è stato di quella Rivoluzione.

Lei ha trovato una risposta a questo interrogativo così pesante? Rafi Pitts: No, direi proprio di no. Anzi, preferisco porre le domande, piuttosto che darmi delle risposte. Poi ho raccontato una storia attorno a questa domanda. Mi piace finire le risposte con tre punti di sospensione.

Non posso non notare che nel film si vede molto il verde. Il colore della macchina del protagonista e delle mura di casa sua. E' stato un omaggio al popolo verde?

Rafi Pitts: Abbiamo scelto il colore prima che iniziassero le manifestazioni; anzi era proprio il colore predominante in tutta la pellicola. Una settimana dopo che abbiamo iniziato a girare, il Green Party ci ha "imitati". Chissà, forse ci siamo influenzati, ma voglio sottolineare che non faccio parte di nessun movimento politico in particolare. Sebbene abbia votato per loro.

Da qualche mese si è stabilito a Parigi. Come vive lontano dal suo paese? E' una condizione che la fa stare male in qualche maniera, o la distanza le permette di vedere le cose con maggiore chiarezza? Rafi Pitts: Il mio cuore è iraniano e quindi non potrei stare troppo tempo lontano dall'Iran perché sarebbe come non respirare più. Nella mia mente mi manca un sacco, perché non so cosa succeda. Sento notizie, ma non sai le cose finché non sei lì. E poi mi manca il mio gatto...

Perché non l'ha portato a Parigi con sé? Rafi Pitts: Perché è un gatto selvatico e non vuole che nessuno lo avvicini. Si fida di me, ma non si fa portare da nessuna parte. E poi non rinchiuderei mai un gatto in casa. I gatti sono molto liberi.