Recensione Reality (2012)

Ciò che fa la riuscita di quest'ultima opera di Matteo Garrone è la sua resa d'insieme, la forza e la semplicità dell'idea iniziale e la coerenza con cui il regista è riuscito ad esprimerla in immagini, utilizzando alla perfezione gli strumenti di un genere (quello della commedia) la cui scelta presentava sulla carta più di un'insidia.

Quaggiù qualcuno ti osserva

Napoli, ai giorni nostri. Luciano vive con sua moglie Maria e con i suoi tre bambini nella periferia della città, arrangiandosi tra la sua attività di pescivendolo (che gestisce insieme all'amico Michele) e una serie di piccole truffe legate al noleggio di un robot da cucina. Il sogno di Luciano, però, ha il nome del più famoso reality del mondo: dopo aver incontrato ad un matrimonio il carismatico Enzo, ex partecipante del Grande Fratello e ora popolare star, Luciano decide di provare in tutti i modi a partecipare alla trasmissione. Così, dopo un improvvisato provino in un centro commerciale, l'uomo viene notato e scelto per una seconda audizione da tenersi a Roma, negli studi di Cinecittà. L'entusiasmo è al massimo, Luciano punta tutto su questa opportunità, praticamente sicuro che farà infine parte del gruppo di persone che verranno scelte per il programma. Dopo il provino, però, l'attesa di una comunicazione da parte dei responsabili della trasmissione si fa presto spasmodica; Luciano è ormai una piccola celebrità locale, ma scoprirà presto che il costo di una fama non ancora raggiunta può essere maggiore di quello della vera notorietà.


Reality si apre e si chiude con la macchina da presa di Matteo Garrone che scruta i suoi personaggi dal cielo, occhio onnisciente che restituisce il nome della nota trasmissione televisiva al suo orwelliano senso originale; ma, a parte queste due parentesi (forse a suggerire la presenza di una qualche divinità, divertita dallo scomposto agitarsi di chi per forza vuole sentirsi addosso gli occhi di qualcuno) gli sguardi, veri e immaginari, che scrutano Luciano (un ottimo Aniello Arena) sono tutti umani e ad altezza d'uomo. Dopo Gomorra, Garrone cambia contemporaneamente registro e argomento, ma non rinuncia all'analisi antropologica della realtà meridionale, di quel tessuto sociale fatto di sforzi quotidiani, promesse disattese e piccoli sogni che malgrado tutto resistono; sogni che si sposano perfettamente con la fascinazione del piccolo schermo, che però non è più quello di mamma Rai e neanche quello degli spot luminosi e levigati portati nel nostro paese dalle tv del Biscione. E' la post-televisione quella che esercita un'attrattiva irresistibile sul protagonista, quella che dà l'illusione di un flusso comunicativo bidirezionale, che subdolamente promette partecipazione e visibilità con una strategia seduttiva e ingannatoria, a confronto della quale le piccole truffe di Luciano non sono che scherzi da bambini.

Se a metà del secolo scorso la cupa visione orwelliana, nome rubato e senso travisato dal suo omologo televisivo, incuteva timori e inquietudini nella società postbellica, il senso comune ha ormai rovesciato questa percezione: l'uomo della società contemporanea vuole una vita sotto lo sguardo delle telecamere, contemporaneamente fa credere (e crede) di esserne spaventato, ma segretamente la agogna perché ha timore che senza di essa la sua stessa essenza scomparirebbe. Persa, inevitabilmente, in un villaggio globale da incubo, in cui la quantità e la rapidità delle informazioni annullano qualsiasi illusione di vicinanza e di possibile, reale contatto umano. Il grande pregio della sceneggiatura è stato quello di aver portato queste riflessioni sociologiche utilizzando toni (e una struttura cinematografica) sostanzialmente da commedia, e di essere riuscita a calarle perfettamente in una realtà sociale come quella napoletana; con la religione cattolica, tradizionale collante sociale per i ceti popolari, sempre più sostituita da quella laica delle immagini televisive, che ha anch'essa i suoi riti e i suoi santuari. La giustapposizione tra questi ultimi, mostrata in modo chiaro nell'ultima sequenza, non è affatto casuale.

E' abbastanza inutile, in un film come Reality, soffermarsi sui singoli elementi filmici dell'opera, stare a lodare le musiche di Alexandre Desplat o l'efficace resa scenografica, o ribadire che Garrone, con i suoi morbidi, eleganti e mai gratuiti movimenti di macchina, si conferma come uno dei più dotati registi italiani in circolazione. Ciò che fa la riuscita di quest'ultima opera del regista romano è la sua resa d'insieme, la forza e la semplicità dell'idea iniziale e la coerenza con cui è riuscito ad esprimerla in immagini, utilizzando alla perfezione gli strumenti di un genere (quello della commedia) la cui scelta presentava sulla carta più di un'insidia. Il risultato, oltre a rappresentare una conferma, è importante e prezioso per tutto il nostro cinema.

Movieplayer.it

4.0/5