Peter Landesman presenta a Venezia Parkland

Il regista ha presentato al Lido il suo film d'esordio, che affronta uno snodo cruciale della storia americana, come l'omicidio Kennedy, dal punto di vista di alcuni personaggi poco noti, che tuttavia vissero i fatti in prima persona.

Ha senso, nel 2013, un nuovo film sull'assassinio di John Fitzgerrald Kennedy? Sì, secondo il regista esordiente Peter Landesman, se il punto di vista è diverso da quello usuale: Parkland, infatti, racconta i fatti attraverso gli occhi di alcune figure "di secondo piano" (virgolette d'obbligo) che vissero comunque in prima persona il drammatico evento: tra questi, Jim Carrico, giovane medico dell'ospedale che dà il titolo al film, che cercò di salvare dapprima il presidente e poi il suo assassino Lee Oswald; il fratello di quest'ultimo Robert Oswald; l'agente dell'FBI James Hosty, che fu personalmente minacciato da Oswald pochi giorni prima dell'attentato; il sarto Abraham Zapruder, che girò casualmente il famoso filmato che ritrae gli ultimi attimi di vita del presidente.
In occasione della presentazione del film, in concorso, alla settantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, il regista, insieme ai produttori Matt Jackson e Guy East e a Tom Welling, interprete dell'agente federale Ron Kellerman hanno svelato genesi e curiosità legate alla realizzazione del film.

Come siete riusciti a dare un senso di novità a una storia raccontata così tante volte?
Peter Landesman: Per 50 anni, questa vicenda è stata fonte di speculazione politica: ma ciò che in realtà non si è mai capito è stato il caos, il disorientamento e l'anarchia che sono seguiti all'omicidio. Io, nella mia carriera, ho coperto guerre, storie di distruzione e disorientamento collettivo: riguardando, attraverso le maglie di questa gabbia, la storia dell'omicidio di Kennedy, ho capito che questa non era stata mai raccontata come doveva. Il concetto del film è quello di prendere lo spettatore, e metterlo nei panni di queste persone che hanno dovuto esaminare cosa era successo.
Matt Jackson: Ci sono eventi, nella storia americana, che sono importanti per tutti: tra questi ci sono l'omicidio Kennedy e l'11 settembre. Noi abbiamo cercato di entrare nel materiale che avevamo a disposizione, abbiamo voluto raccontare la storia delle persone comuni che erano lì sul luogo.
Guy East: Io l'11 settembre ero lì, e mi ha colpito il coraggio e la calma di molte persone comuni che si trovavano sul posto. Lo stesso può valere per il giorno dell'uccisione di Kennedy. Come ci saremmo comportati, noi, se ci fossimo trovati in una situazione simile?

Che tipo di ricerche avete fatto, che fonti avete usato? Peter Landesman: Ci sono molte trascrizioni delle deposizioni dei fratelli Oswald alla polizia, e anche trascrizioni degli archivi dei servizi segreti. Ho anche passato molto tempo con l'agente James Hosty prima che morisse, mi sono chiesto chi fosse realmente: . Per il filmato girato da Zapruder abbiamo avuto un'autorizzazione speciale: è quello originale, ma ho pensato che mostrarlo in modo "impressionistico" fosse molto più efficace.

Nelle scene immediatamente seguenti all'omicidio, il sangue ricopre tutto: superfici, camici dei dottori, vestiti degli uomini dei servizi segreti. Sembra quasi che questo rappresenti una simbologia...
Abbiamo cercato di far vedere questo film con il maggiore senso di verità possibile. La nostra, se vogliamo, è una visione shakespeariana della vicenda.

Perché la scelta del direttore della fotografia Barry Ackroyd?
Barry è un grande artista, nella sua carriera è riuscito a ricreare un perfettto senso di verità nei luoghi, sia nei film di fiction che nei documentari. La sua è una visione "arcaica", che prende lo spettatore e lo porta nei film.

Nel film non c'è spazio per le numerose teorie di cospirazione che negli anni si sono succedute sull'attentato. Come mai?
L'idea è che per 50 anni la cospirazione abbia già occupato molto della discussione sulla vicenda. Noi volevamo concentrarci sulla verità nuda, ed emotiva, dei protagonisti.

Si potrebbe dire che lei ha ritratto sullo schermo un personaggio come Oswald con qualcosa che, con termine un po' azzardato, si potrebbe definire "simpatia". E' così?
Io non utilizzerei il termine simpatia, e neanche compassione: riconosco però la sua umanità, che è la stessa di qualsiasi altro essere umano. Ho cercato di capire il motivo per cui premette il grilletto, i particolari del suo rapporto col fratello e la madre. Questo film non vuole difendere né incolpare nessuno, si tratta piuttosto di un'esperienza umana.

Il titolo si rifà a un luogo vero, ma rappresenta forse anche una metafora per il paese?
Si arriva ad un momento in cui Parkland diventa uno stato mentale, un luogo simbolico dove si va a morire, dove finiscono la speranza e i sogni. Per noi è come una condizione spirituale.

Welling, come è stato far parte di un film corale come questo?
Tom Welling: E' stata una splendida esperienza, d'insieme: chi ha scelto il cast ha fatto delle ottime scelte. La parte peggiore è stata solo quando abbiamo finito. Abbiamo mostrato persone che generalmente mancano dai racconti della televisione e dei media. Le prime due ore di riprese sono state un po' strane, perché si girava con macchine da presa tutto intorno, e nessuno sapeva se in quel momento era ripreso o no. Peter ha fatto in modo che tutti si sentissero rilassati e liberi di sbagliare.

Perché il film termina con la sepoltura di Oswald? Peter Landesman: Perché è un film che parla di noi, della gente della strada. Robert Oswald è come uno di noi: la differenza è che lui a un certo punto si sveglia e capisce che suo fratello è diventato un criminale assassino.

Se si parla di un film sull'omicidio Kennedy, non si può ignorare JFK - Un caso ancora aperto di Oliver Stone: ma le tesi abbracciate da quel film non trovano riscontro nel suo. Lei come si pone nei confronti di esse?
Non le condivido, ma ripeto, il film non parla di questo. Noi volevamo raccontare un'altra storia, una storia di persone comuni.