La televisione secondo Tom Fontana

Il grande autore e produttore ha risposto alle domande del pubblico del RomaFictionFest, raccontando la sua idea di televisione e ripercorrendo la propria carriera, dagli esordi come scrittore per il teatro alla recente sfida de I Borgia

Una leggenda della televisione americana, Tom Fontana lo è veramente. Ma non diteglielo, perché pensa che essere annoverato in tale categoria sia "terribile": questo perché il primo consiglio che gli venne dato, al suo arrivo a Hollywood, fu quello di non credere mai a chi gli avesse detto che era un genio, visto che a quel punto sarebbe stato costretto a dare lo stesso credito anche a chi lo avesse definito con epiteti meno lusinghieri. E, a sentire lui, di gente pronta a farlo ce n'è stata.

Per Fontana l'unico metro di giudizio è il proprio, insieme a quello della sua famiglia, anche perché il suo ingresso nel mondo della televisione è stato quasi del tutto fortuito: nei primi anni Ottanta Fontana viveva a New York scrivendo spettacoli per il teatro, e fu un amico a proporgli di curare la sceneggiatura di un episodio di una serie televisiva. Dopo le titubanze iniziali "perché insomma, io scrivevo cose serie, come Shakespeare, come Čechov", la prospettiva di guadagnare, con un singolo lavoro, quattro volte il suo stipendio annuale ne annullò le reticenze, e fu così che Fontana si appassionò al medium televisivo, la cui potenzialità principale individua nella vastissima audience raggiungibile. "L'idea che quello che tu hai scritto sarà visto da milioni di persone non poteva che esaltarmi, considerato che quando scrivi per il teatro al massimo il tuo messaggio arriverà a una quarantina di persone", dichiara l'autore newyorkese, che però ha presto compreso quali fossero i rischi del lavorare all'interno del sistema. "La cosa peggiore di Hollywood è che, quando fai qualcosa che va bene, la risposta standard è: facciamone un'altra!". Ma la spinta creativa di Fontana l'ha sempre portato lontano da questo rischio: intenzionato com'è a sfidare sempre sè stesso, a esplorare nuovi orizzonti, a dimenticare le cose appena apprese grazie all'esperienza, il creatore di Homicide: Life on the Street, St. Elsewhere, Oz crede fermamente nell'importanza di correre dei rischi. "Dopo sei stagioni di serie medica, dopo 137 episodi totali, tra di noi scherzavamo sul fatto che ogni singola volta dovevamo scrivere una scena in cui c'è il paziente a letto, il dottore entra, gli dice qual è la sua malattia e se dovrà vivere o morire. Non ne potevamo più, per questo abbiamo cominciato a introdurre anche degli elementi assurdi, come le api assassine: per spezzare quella monotonia. Fare un'altra serie sarebbe stato troppo".

D'altra parte, il bello di essere un autore di successo è che le offerte di lavoro, e quindi gli introiti, non mancano, e con una certa solidità economica alle spalle è più semplice prendersi la libertà di sperimentare. "Voglio essere terrorizzato ogni volta che mi metto a scrivere. Non potrei mai fare come l'ideatore del Dr. Kildare, che ha fatto serie ambientate negli ospedali per tutta la vita". Anche perché, essendo nato negli anni Cinquanta e avendo ammesso che, a casa sua, la televisione era sempre accesa, Fontana di medical drama ne ha senz'altro visti parecchi e, nonostante ne abbia voluto creare una propria versione, la sua esigenza di sorprendere, prima di tutto se stesso, lo ha portato verso altri territori, rifiutando sempre il proprio primo impulso. "Quando io ho un'idea, o ce l'ha uno dei miei collaboratori, mi chiedo sempre: c'è un modo più interessante per rappresentarla? La cosa peggiore di quando guardi qualcosa in televisione è capire mezz'ora prima come andrà a finire, ed è una cosa che cerco di evitare in tutti i modi". Fontana cerca di ottenere questo risultato anche attraverso il proprio metodo di lavoro, che passa per una pianificazione a cui ammette spesso di non attenersi. "Quando ho un'idea, non sempre so come ci arriverò. I personaggi poi vivono di vita propria, ti devi fidare di loro, e lasciarti portare dove vogliono loro".

La scrittura è un'arte, si, ma per Fontana è innanzi tutto l'arte di rubare: dal teatro russo, da quello shakespeariano o addirittura dall'antica Grecia, come ci dimostra presentandoci una clip tratta da Oz, in cui un originale personaggio fa le veci del coro classico, commentando la scena e offrendo un contrappunto morale alle vicende della serie. Rubare va bene, ma anche studiare è un presupposto indispensabile alla creazione di una serie di successo: così come è avvenuto proprio per Oz, seguito a due anni di visite alle carceri di tutto il Paese, ma anche per I Borgia, che hanno costretto un Fontana felicissimo di una tale necessità a recarsi a Roma. "Volevo vedere i posti dove avevano vissuto le persone di cui dovevo parlare, volevo aprire gli occhi e avere la loro stessa prospettiva, volevo entrare nelle loro vite". Fontana è conscio della responsabilità verso la storia che progetti come quello in questione implicano, e per questo il suo lavoro di ricerca è stato così approfondito: e allora non basta comprare libri scritti ora sui Borgia, perché questi libri hanno come riferimento libri di vent'anni fa, e questi a loro volta si rifanno a storici più antichi. Ma molti dati sono tramandati senza le dovute verifiche, ed è per questo motivo che molti dei materiali consultati erano contemporanei alla vita di Lucrezia e della sua famiglia: le lettere dell'emissario del Duca di Ferrara e di quello del Re di Francia hanno spesso offerto una doppia prospettiva sulla vita nelle aule papali, che ha contribuito a delineare con maggiore precisione storica i protagonisti di quei momenti, di colmare i vuoti. E' altrettanto vero, però, che alcune volte i fatti si rivelano sacrificabili, nel momento in cui potrebbero uccidere un momento drammatico. Nel delineare il personaggio di Lucrezia Borgia, Fontana ha pensato, più che alla sua di personalità di donna matura, alla sua versione ragazzina, alle sue prime esperienze con l'amore e con la vita: "quando si lavora su una fiction storica, bisogna stare attenti a creare delle connessioni con il presente. Ad esempio, ogni generazione ha bisogno della propria versione di Romeo e Giulietta, ed è quello che cerco di fare io: dare la mia versione" commenta Fontana presentandoci la sua idea di Iago, ovvero uno dei carcerati di Oz pronto a ogni genere di complotto pur di avere la meglio sui propri avversari.

A chi gli chiede cosa lo abbia spinto a creare una serie ambientata nel mondo duro e violento del carcere, Tom risponde scherzosamente: "Dopo aver fatto tante stagioni di una serie investigativa, in cui alla fine di ogni episodio il cattivo veniva arrestato, mi sono iniziato a chiedere: e dopo, cosa gli succede? Spesso percepiamo i carcerati come persone senza volto, che stanno rinchiuse tutto il giorno senza fare nulla. Ma quando metti insieme migliaia di persone che hanno compiuto azioni violente, alcune delle quali ne avranno effettivamente compiuta solo una, ma altrettanti saranno anche assassini seriali, persone veramente pericolose, come puoi non aspettarti che succeda qualcosa?". Questo qualcosa, per Fontana si sviluppa su due differenti livelli: uno, che si gioca su tutta la durata della serie, è quello del tema principale, di quello che la vicenda nel suo complesso sta cercando di rappresentare. L'altro è quello del singolo episodio, in cui fondamentale, più che la storia, è la caratterizzazione dei personaggi. Come ad esempio del detective Pembleton: il suo punto di forza era la sua capacità di far crollare qualsiasi sospettato, anche facendo uso di espedienti non propriamente etici: aspetto, questo, che verrà avversato fin da subito dal collega Bayliss, in un confronto che porterà, nel finale, a uno scambio di ruoli tra i due personaggi.

L'idea vincente si ottiene innanzi tutto evitando di focalizzarsi su un determinato target: "quando scrivi per un pubblico specifico, inevitabilmente perdi parte della verità. Io, invece, voglio scatenare delle discussioni",dichiara Fontana. Ma non meno importante è il lavoro serrato in fase di sceneggiatura, che Fontana rivede almeno due volte prima di presentarla alla produzione, in modo che i suoi collaboratori possano metabolizzare gli input della prima bozza e sviluppare con libertà le proprie idee, in un continuo scambio reciproco che continua anche nel corso delle riprese. "Mi piace moltissimo stare sul set, e non perché voglia fare il poliziotto che controlla tutto, anzi per offrire il mio aiuto nel caso l'intenzione che volevo trasmettere con la sceneggiatura non sia chiara al regista": ma è difficile che con Fontana non ci si trovi bene, perché è lui per primo a sottolineare il rispetto che ha per il lavoro del regista, e la sua volontà di non imporre mai la propria visione nel loro operato: "Io so benissimo di non essere in grado di occuparmi della regia, e quindi non intervengo. Quello che cerco è un'anima gemella, un collaboratore a tutto tondo". Altro aspetto su cui Tom è in grado di fare un passo indietro è quello legato alle scelte musicali. "Fosse per me, che sono uno stupido hippie radicale, userei solo musica dei Beatles e dei Rolling Stones... Ma per fortuna ho al mio fianco un collaboratore come Barry Levinson, che ha sempre in mente la canzone giusta e mi fa notare che non è per forza Abbey Road la colonna sonora più appropriata!" Per quanto riguarda gli attori, fondamentale per Tom è invece l'onestà, la capacità di essere in contatto con se stessi o, se non altro, di cercare di esserlo. Ma altrettanto importante è non avere paura anche di interpretare ruoli scomodi, come spesso si sono trovati a dover fare i membri dei suoi cast. "Mi è capitato di avere a che fare con degli attori che mi hanno detto cose come 'no, non posso assolutamente fare questo personaggio, i miei fan non approverebbero!' e la mia risposta è stata 'Ah davvero? Nessuno dei due?'. Questo per dire che per me è fondamentale il coraggio, la volontà di spingersi sempre oltre." Non per questo, però, Fontana è pronto ad arrivare allo scontro verbale: per lui, sul set è indispensabile non lasciarsi mai andare agli isterismi, perché il lavoro del regista, come quello dell'attore, è un lavoro duro, e non c'è ragione per cui lo si debba fare in un ambiente ostile. "D'altronde, non esiste una sola scena de Il Padrino in cui don Vito urli, e non esiste un personaggio più potente di lui".

Quello che la televisione ha permesso di fare a Fontana è esplorare la vita, di seguirla attraverso il viaggio che è; ma è un'esplorazione che non può prescindere da un impegno costante. "Io penso che esista gente che è nata per scrivere, e credo di avere la fortuna di essere tra questi. Tutti hanno una storia da raccontare, ma per farlo serve anche disciplina. Io, in qualunque posto del mondo mi trovi, tutte le mattine mi sveglio alle cinque e scrivo. Non dico che tutti debbano fare come me, ma ognuno deve trovare la propria forma di disciplina. Scrivere deve diventare un atto abituale, come mangiare o allenarsi in palestra, e alla fine non dico che diventerà facile, ma più facile sicuramente". E a chi gli chiede quali siano i suoi scenari lavorativi per il futuro, Tom risponde senza mezzi termini: "sono una prostituta. Il mio corpo e il mio cervello sono in vendita. Andrei dovunque, basta che mi lascino creare secondo la mia visione".