L'Italia di Tornatore, Rubini e Papaleo

Giuseppe Tornatore, Sergio Rubini e Rocco Papaleo hanno affrontato il tema del regionalismo e dell'autobiografia parlando dei loro ultimi film e confrontandosi in un vivace dibattito a Castiglioncello.

Quest'anno gli incontri di Parlare di cinema a Castiglioncello, manifestazione giunta ormai al sesto anno di vita, hanno permesso una riflessione sulle tendenze emerse nella produzione cinematografica italiana di quest'ultimo anno. Trait d'union tra i titoli più significativi emersi è un'attenzione alla specificità regionale alla ricerca di radici che affondino nel retroterra culturale e sociale locale. Uno dei film più riusciti di questa stagione, il toccante La prima cosa bella, di cui già si parla come di possibile candidato italiano agli Oscar per il 2011, ha visto il regista Paolo Virzì tornare nella sua Livorno per fare i conti con un passato da romanzo. Giuseppe Tornatore ha fatto ritorno nella natia Bagheria, interamente ricostruita in Tunisia per esigenze cinematografiche, per omaggiare la propria terra con un'apologia visionaria e perfino Ferzan Ozpetek, nel brillante Mine vaganti, ha abbandonato Roma eleggendo la provincia pugliese teatro della sua nuova commedia familiare. A riflettere sul fenomeno sempre più frequente in un'interessante confronto moderato da Paolo Mereghetti sono intervenuti il regista di Baaria Giuseppe Tornatore, Sergio Rubini, anche lui di ritorno dalla Puglia dove ha girato l'autobiografico L'uomo nero, e l'esordiente Rocco Papaleo, autore del road movie Basilicata coast to coast.

I vostri film sono nati sotto il segno della regionalità. Quale è la molla che vi ha spinto a scavare nel passato per recuperare le vostre origini?

Giuseppe Tornatore: Io sono totalmente condizionato dal mio essere nato e cresciuto a Bagheria. Sono andato via dalla Sicilia a ventisette anni, quando avevo ormai assorbito tutti i difetti della mia terra e Baaria è il film che ho sempre desiderato fare. I miei lavori precedenti girati in Sicilia sono anticipazioni di quest'ultimo. Era impossibile per me realizzare un film lineare perché volevo dar voce al ricordo che avevo dentro di me, perciò Baaria è un racconto frantumato, fatto di salti temporali, parole, suoni, sguardi, come i ricordi che ci portiamo dentro del luogo in cui siamo nati. Io non nutro rancore verso la mia terra, perciò non ero spinto dal desiderio di "fare i conti" col passato, ma piuttosto di preservare la memoria di qualcosa che non esiste più. Perciò mi sono trovato a dover ricostruire tutto così come me lo ricordavo, perché i cambiamenti sono espressione di morte mentre io volevo dar vita alla Baaria della mia infanzia.

Sergio Rubini: Io sono andato via dalla Puglia a diciotto anni per fare l'attore, ho frequentato una scuola di impostazione teatrale e la prima cosa che ho dovuto studiare è stata la dizione, perciò ben presto ho cessato di parlare in pugliese. Poi però mi sono reso conto che quando parlavo inglese il mio pugliese tornava fuori e quando parlavo pugliese mi veniva da parlare inglese. Il dialetto, nel mio cervello, aveva preso il posto di una lingua straniera, così ho sentito il bisogno di rielaborare il passato sotto forma di viaggio che prende il via dal luogo in cui sono partito. Ne L'uomo nero, come in La terra, i protagonisti vivono lontano dalla Puglia, sono fuggiti dalle proprie radici e dai propri familiari. Anche io in passato ho sentito il bisogno di prendere le distanze dai miei genitori, poi col tempo l'astio è diminuito e per fortuna mi sono riappacificato con mio padre prima di quanto riesca a fare Fabrizio Gifuni ne L'uomo nero. Però non credo che sia possibile raccontare un luogo in cui non si vive quotidianamente, dove non si compra il pane ogni giorno, perciò la mia Puglia è un luogo della memoria, un luogo che oggi non esiste più. Per me la Puglia è un teatro di posa in cui narrare le mie storie.

Rocco Papaleo: A differenza dei miei colleghi io non ho una visione così chiara del perché abbia fatto il mio film, Forse l'ho capito solo adesso sentendoli parlare. Il mio desiderio era di affermare l'esistenza della Basilicata e per farlo ho scelto un percorso egoistico che mi ha permesso di saldare un debito. Ora so di essere fortemente lucano, e per mostrare l'evoluzione dei miei personaggi ho scelto la metafora paesaggistica. La scelta del road movie permettere di creare una corrispndenza tra cambiamento esteriore e interiore.

Fino a che punto è fondamentale il concetto di autobiografia?

Giuseppe Tornatore: La molla che mi ha spinto a realizzare il mio film non era tanto l'autobiografia quanto la voglia di preservare la memoria, di realizzare un film più per me che per gli altri. Volevo rivivere un luogo che mi mancava. Baaria è un mondo su scala ridotta che oggi non esiste più.

Sergio Rubini: Io credo che nel cinema non si possa raccontare altro che la propria biografia. Nello stesso tempo quando si prova a raccontare la propria storia, necessariamente si mistifica. Quando sono tornato nella casa che conoscevo da bambino mi sono reso conto che nella mia memoria era molto più grande che nella realtà. Paradossalmente questo accade sempre. La realtà non si può riprodurre pedissequamente, ma per tramandarla deve essere modificata. Mio padre non ha mai dipinto l'autoritratto di Cézanne, ma gli sarebbe piaciuto molto farlo. Io gliel'ho permesso nel mio film.

Rocco Papaleo: Il mio non è film autobiografico, ma piuttosto una sorta di Sliding Doors. Cosa sarebbe successo se mi fossi laureato in matematica invece di fare l'attore? Probabilmente sarei diventato insegnante, come il mio protagonista e avrei continuato a nutrire sogni artistici.

Nei vostri film i personaggi si devono relazionare non solo con se stessi, ma anche con la comunità alla quale appartengono.

Giuseppe Tornatore: Certamente, infatti a me interessava raccontare un personaggio appartenente alla generazione di mio padre, uno che ha fatto politica per tutta la vita rimanendo nell'ombra. Volevo parlare della delusione, del crollo dell'ideologia che ha iniziato a manifestarsi dagli anni '70 in poi. Il mio è un personaggio che ha creduto fortemente e che resta schiacciato dalla realtà, dalla deformazione dell'idea politica. E' un uomo di provincia con un grande sogno che non riuscirà mai a realizzare.

Sergio Rubini: La provincia è un luogo dove esporsi è sempre pericoloso. E' un mondo piccolo, chiuso, dove tutti si conoscono. Proprio per questo la provincia è un luogo giudicante, dove un ferroviere che ama dipingere viene deriso e quest'ironia serve a strappar via i sogni dell'altro per mantenerlo nell'immobilità, per costringerlo a restare vicino agli altri. Il paesino in cui sono cresciuto era una comunità agricola, retriva, meschina. In Francia per fare i complimenti a una persona si dice "Sei un poeta". Dalle mie parti per denigrare qualcuno si dice "Sei un artista".

La provincia è un universo chiuso e soffocante, ma è anche il luogo dove si coltivano i sogni.

Rocco Papaleo: I miei personaggi non riescono a realizzare il proprio sogno, ciò che li aveva spinti ad attraversare la Basilicata a piedi, ma ne realizzeranno altri che non avevano fatto.

Sergio Rubini: In fin dei conti i film vengono realizzati per dare un senso alla vita, per scavare a fondo nella radice dei nostri sogni. Dar conto solo del cambiamento esteriore di un luogo o del tempo che scorre sarebbe riduttivo. Il cinema ha bisogno di senso altrimenti non ha ragion d'essere. Per riprodurre realtà estetiche prive di senso basta la televisione che questa cosa la fa benissimo. L'idea del cinema come forzatura, come mistificazione della realtà l'ho mutuata da Fellini col quale ho lavorato quando ero molto giovane. Da lui ho imparato molte lezioni, una particolarmente importante. Quando giravo insieme a lui avevo venticinque anni e mi capitava di alzarmi molto tardi, ma dal momento che lui aveva l'abitudine di telefonare ai suoi collaboratori la mattina presto, anche alle sette, mettevo la sveglia alle sei per non farmi trovare assonnato. Quello che ho capito, grazie a lui, è che se vuoi esprimere un'opinione sul mondo la mattina ti devi alzare presto.