Recensione Se sei così, ti dico sì (2011)

Incuriosisce che un regista come Eugenio Cappuccio, per sua stessa affermazione indifferente al panorama televisivo, si sia lasciato coinvolgere da un progetto deciso a raccontare le ricchezze e le miserie vissute all'ombra del piccolo schermo, ma ancora più che come co-protagonista abbia scelto colei che della tv sembra aver fatto un regno personale. Un mistero presto svelato, visto la produzione ad opera di Antonio e Pupi Avati.

Io, te il mare e il peso dell'insuccesso

Quale differenza c'è tra un uomo di successo e uno di valore? Senza troppo disturbare Oscar Wilde, che fu il primo a mettere l'accento sull'annosa questione, basta osservare la quotidiana esistenza di Piero Cicala per comprendere come nei tempi moderni questa sofisticata sfumatura letteraria si sia trasformata in un divario sostanziale di proporzioni gigantesche. Sedotto e velocemente abbandonato da una fama fugace e infedele, l'ex stella nascente della musica italiana anni ottanta, si rifugia nella sua Puglia a guarire le ferite di un sogno infranto. Qui, meditando tristemente su una serie di fallimenti personali e professionali, si lascia andare a una vita senza prospettive come se, oltre le luci della ribalta, non esistesse altro. Così, quando la televisione lo chiama nuovamente a se per un programma dai toni nostalgici, il cantante meteora torna a spolverare un look vintage e a riproporre il suo cavallo di battaglia Io, te e il mare. Arrivato a Roma a poche ore dalla diretta televisiva, Cicala scopre com'è cambiato lo show business in più di un ventennio, diventato ancora più fagocitante e senza alcuna attenzione per l'individuo. A traghettarlo in questo nuovo paese della cuccagna dove l'apparire è necessario quanto l'ossigeno e l'essere sentimentalmente liquidi assicura costante visibilità, è la seducente Talita Cortès, diva del momento e nuova icona pop. Accanto a lei, a metà strada tra la Puglia e il Texas, Piero ritrovera l'entusiasmo perduto e comprende che, nonostante tutto, c'è ancora tempo per un'altra canzone.


Incuriosisce che un regista come Eugenio Cappuccio, per sua stessa affermazione indifferente al panorama televisivo, si sia lasciato coinvolgere da un progetto deciso a raccontare le ricchezze e le miserie vissute all'ombra del piccolo schermo, ma ancora più che come co-protagonista abbia scelto colei che della tv sembra aver fatto un regno personale. Un mistero presto svelato, visto la produzione ad opera di Antonio Avati e Pupi Avati. E' ormai ben nota, infatti, l'attitudine dei due fratelli di mischiare le carte mettendo alla prova personaggi fondamentalmente estranei al linguaggio cinematografico. Quindi, nulla di particolarmente sconvolgente nel vedere Belen Rodriguez unirsi a un folto gruppo formato da Nino D'Angelo, Katia Ricciarelli ed Ezio Greggio, soprattutto in virtù del fatto che, vuoi per l'adeguatezza del personaggio o per la capacità del regista di accompagnarla con mano ferma, l'esperimento è decisamente riuscito. Talita Cortès è la facile e deducibile rappresentazione della superficialità di un mondo cui, volente o nolente, la stessa show girl argentina appartiene. Attraenti, di successo e regine indiscusse del gossip, personaggio e interprete sono uno lo specchio dell'altro o, quantomeno, riproducono il riflesso di una realtà indotta e spesso distorta.

Così, nella sua rappresentazione di questa creatura costituzionalmente capricciosa e tendenzialmente dissociata dal mondo reale, Belen si contrappone con naturalezza all'affaticata quotidianità di Piero Cicala. Abbandonati i toni della commedia leggera, Emilio Solfrizzi dimostra una duttilità che va ben oltre le scelte di regia. Nei primi piani stretti e spesso impietosi il suo volto porta i segni della sofferenza e del fallimento, facendosi carico di una narrazione fisica più che verbale. Appesantito, provato dal tempo e dagli avvenimenti, mette in scena la desolazione umana che, non senza costernazione e timore, lascia nuovamente spazio a una possibilità di rinascita. Eppure, nonostante la strana coppia Belen/Solfrizzi funzioni a dovere, il film ha il difetto dell'inconsistenza e della futilità. Un problema che risiede all'interno di una sceneggiatura poco coraggiosa e fautrice di una filosofia già e meglio applicata in tutte le sue forme. In questo modo anche la riflessione sullo show business vive di un già sentito e già detto che, nel peggiore dei casi, sfocia in un luogo comune senza ritorno. Una scelta, questa, in cui si sente forte la presenza della ditta Avati che, pur amando storie a misura d'uomo, raramente riesce a liberarsi di un tocco tanto leggero da risultare evanescente.

Movieplayer.it

3.0/5