Recensione Il colore del vento (2010)

Le immagini del viaggio della nave, del suo equipaggio, di quelle acque che non hanno nazionalità, danno coesione a un concept in ogni caso profondamente organico nonostante la sua poliedricità e la frammentarietà delle sue voci, perché Il colore del vento è un'unica storia, la nostra, come il Mediterraneo è il Mare Nostrum.

Il mare intorno

Una nave cargo percorre le rotte del Mediterraneo, sfiorando porti, attraversando tramonti, rivisitando vicende; un cineasta/esploratore solca le stesse onde, a ispirarlo le musiche di una coppia di straordinari musicisti, Fabrizio De Andrè e Mauro Pagani, e lo spirito di un album leggendario, Creuza de mä. Questa è il pretesto, poetico e potente: ma il sangue e il cuore de Il colore del vento sono le storie che racconta, storie molto diverse ma tutte colme di speranza e di contraddizioni, cariche di ricordi e di attualissima rilevanza.
Culla di civiltà antichissime, fonte di vita e prosperità, avversario ammirato e minaccioso, immagine vivificante di solidarietà e comunicazione, e simulacro dell'umana e irresistibile pulsione del viaggio, il mare è protagonista assoluto del film di Bruno Bigoni e ritorna nelle parole di uomini e donne che si raccontano da una costa all'altra.


Lo guarda con rispetto e gratitudine Violeta e si guarda indietro, alle ore terribili del suo viaggio da Valona a Bari, unica donna sola, incinta e con un bambino piccolo, prima di poter voltare pagina in Italia; lo guardano con con smania i ragazzi di Tangeri, che sognano la Spagna, così a portata di mano eppure lontanissima; gli abitanti di Dubrovnik l'osservano con amore, perché li ha nutriti e protetti durante l'incubo dell'assedio della città nel 1991; ma gli si rivolgono con rimpianto le ragazze nigeriane invischiate nella prostituzione nell'odierna Genova, perché per loro le crêuze de mä, i viottoli del mare, sono diventati una prigione, e lo guardano con inquietudine e sospetto, in questo stesso momento, gli abitanti di Lampedusa.

Le immagini del viaggio della nave, del suo equipaggio, di quelle acque che non hanno nazionalità, danno coesione a un concept in ogni caso profondamente organico nonostante la sua poliedricità e la frammentarietà delle sue voci, perché Il colore del vento è un'unica storia, la nostra, come il Mediterraneo è il Mare Nostrum. L'insoddisfazione, la curiosità, la speranza, quell'urgenza di scoprire nuovi orizzonti e una vita migliore che rende la specie umana così immensamente diversa da quelle con cui condivide il pianeta; ma anche gli incomprensibili e indicibili orrori, uno dei quali - forse il più straziante e universale - è cantato, in ligure da Marco Pagani e in arabo dalla musicista tunisina Mouna Amari, in Sidun, forse il momento più bello dell'intero Creuza de mä, certamente il momento più memorabile del film di Bigoni. Il momento in cui l'arte e la poesia raccontano la follia umana e i conflitti che ci separano, le inevitabili, demolitrici nevrosi prodotte dalle contraddizioni della nostra terribile e meravigliosa razza.

Perchè di nostro dalla pianura al molo/ non possa più crescere albero né spiga né figlio.

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3.0/5