Recensione Sotto il vestito niente - L'ultima sfilata (2011)

Sotto il vestito niente - L'ultima sfilata è un melò camuffato da thriller hitchcockiano che promette ai suoi spettatori il rilancio di un genere ma finisce per affondare nel sentimentalismo da soap.

Quello che sembra non è mai come sembra

L'ultima sfilata di Alexandra, musa dello stilista Federico Marinoni, è stata un vero successo e la top model dagli occhi di ghiaccio decide di separarsi dalla solita cricca per festeggiare tra le luci psichedeliche di un locale, qualche bicchiere di troppo e la droga per alleggerirsi i pensieri insieme all'amica e collega Cris e a qualche bellimbusto appena conosciuto. Ma durante la notte la ragazza viene investita all'esterno di un bar: la sua morte porta il lutto in casa Marinoni, dove sembrava ben voluta, e dà noie all'ispettore Malerba, che si convince fin dal primo indizio che non si tratta di un incidente. Indagando sul misterioso caso, l'arguto detective, che è anche in attesa di diventare padre, scopre che anche la modella di punta della maison milanese era morta in circostanze oscure e intuisce che Britt, l'incantevole e innocente fioraia che ha appena preso il posto di Alexandra, corre il rischio di essere assassinata. Incastrare il responsabile degli omicidi non è affatto un'impresa facile, specie se, come nel più classico dei gialli, i sospetti ricadono su numerosi soggetti: Max Liverani, socio dello stilista che ha fatto pubblicare necrologi anonimi per la modella uccisa, Beppe Luini, ex marito di Daria Marinoni, che si era sposato solo per interesse, Heidi, ex modella un tempo tra le preferite dello stilista e ora sua assistente, Tanino Andò, acerrimo nemico dei Marinoni, e Viganotti, giornalista della moda erotomane con tanto di kamasutra sullo scaffale all'ingresso del suo appartamento. A rendere il lavoro ancora più difficile all'integerrimo ispettore ci pensa inoltre Britt, la donna che sta cercando di aiutare, un ammaliante cigno bianco della moda pronto a sedurlo con succulenti prelibatezze svedesi.


Da padrini del buonumore ad autori del giallo il passo non è breve se a farlo sono i fratelli Vanzina, figli d'arte tra i più prolifici nel nostro Paese con una carriera davvero formidabile e una collezione notevole di successi al botteghino. Sembra però che i tempi stiano cambiando per le due firme della commedia nazionalpopolare perché la stanchezza del genere (finalmente) si fa sentire. Se ci si mette poi anche l'ultima tendenza del cinema all'autoreferenzialismo basta poco a far spuntare l'ennesima operazione di rifacimento. Ai margini del cinema odierno il linguaggio filmico cerca come può di rigenerarsi seguendo la scia del maestro dell'horror Hideo Nakata (che tentò col suo auto-remake hollywoodiano The Ring 2 una mediazione culturale poco apprezzata) e quella dell'Haneke che clonò shot by shot il suo disturbante Funny Games cambiando però lo scenario dell'azione. La storia dunque si ripete, cambiando l'ordine degli elementi o trovandone dei surrogati con audacia e, come nel cubo di Rubik, muove i propri tasselli sperando di azzeccare la combinazione giusta. Ma tutto ciò non basta al cinema, che reclama la sua natura artistica.

E' quello che succede a Sotto il vestito niente - L'ultima sfilata, un melò camuffato da thriller hitchcockiano che promette ai suoi spettatori il rilancio di un genere per poi affondare nel sentimentalismo da soap. Alla totale dissonanza dei toni, che la musica di Pino Donaggio cerca di riflettere, si aggiunge la classica commistione dei generi che non regge di fronte a un rigonfiamento tematico pretenzioso e scoordinato. Franco Ferrini ed Enrico Vanzina accumulano delitti superflui - oltre cinque in un'ora e mezza - e beghe familiari/psicologiche che tirano in ballo quei meccanismi freudiani di cui s'era magistralmente servito l'emulatissimo sir Hitchcock, situazioni da pulp (cocaina, alcolismo e scambi sessuali) e predicozzi sui diritti degli omosessuali, una rappresentazione superficiale della moda e affresco stereotipato di una Milano tutta in ghingheri, reiterati schematismi locali snocciolati da battute in dialetto e solfe sociologiche del self made man di origini piccolo-borghesi.

Non convincono nemmeno gli attori, che sembrano far fatica a confrontarsi con ruoli privi di sfaccettature e di spessore psicologico: il bravo Francesco Montanari, sulla cui performance ricade il peso dell'intera trama, si muove con agilità nella parte di Malerba, copia scialba di un Montalbano finito in un mondo patinato, ma lo spettatore stenta a credere che sia serio quando ripete come una nenia "Quello che sembra non è mai come sembra" o quando, nella scena più esilarante del film, mostra la fede e pronuncia imbronciato un "Mi dispiace" in replica all'invito a cena di una stangona svedese. Con Vanessa Hessler invece i Vanzina propongono un'alternativa poco convincente alla indimenticabile Renée Simonsen del loro originale Sotto il vestito niente (sempre diretto da Carlo Vanzina): la modella danese aveva movenze feline e sprigionava una carica sensuale che la Hessler non riesce a portare al suo personaggio, una gazzella che sembra essersi smarrita sul set più che nel mondo del glamour. Neanche i più esperti Ernesto Mahieux e Giselda Volodi riescono a far quadrare i conti con i loro personaggi marginali ed emarginati: al primo sta stretto il ruolo del giornalista che si dispera malamente quando da cercatore di scandali diventa lo zimbello del villaggio e viene screditato sulle copertine per aver rubato qualche mutandina in pizzo, mentre all'altra tocca ripiegare sul tragico per rendere plausibile una psicopatica che ricorda la governante di Rebecca, la prima moglie.

Dal confronto con la prima versione il film dei Vanzina esce maggiormente svuotato laddove sostituisce a un'estetica dell'immagine, maliziosa e pruriginosa, una dialettica degli affetti frantumata quanto inconsistente. Sotto il vestito niente - L'ultima sfilata risulta inefficace sia sul versante della messa in scena, azzardata con insistite manovre vintage che infastidiscono lo spettatore più o meno colto, sia su quello della recitazione, non agevolata dallo script. Ci si domanda se sia valsa la pena di macinare tanti omaggi, tante citazioni e tanta autoreferenzialità per confezionare nella maniera più allettante possibile una pellicola così maldestra da far rimpiangere un'onesta cinecolomba.