Recensione Il gioiellino (2011)

A metà tra un crime movie e un thriller dell'anima il film del bravo Andrea Molaioli è un'opera cupa in cui Toni Servillo e Remo Girone si muovono come fantasmi di se stessi e si dirigono lungo una strada fatta di drammi e miserie. Destinazione? Un abissale inferno color latte.

I signori della truffa

Tra il 1992 e il 2003 una piccola azienda di famiglia, la Leda, è passata attraverso fasi storiche molto diverse: dal salumificio della vecchia generazione si è trasformata in una modesta impresa che produce latte per poi diventare un'affermata industria agro-alimentare con partecipazioni esterne, titoli quotati in Borsa ed esportazione dei propri prodotti in tutto il mondo. Ma la sua pecca è stata fin dal principio la mancanza di liquidità e il desiderio di risolvere il problema con un approccio poco lungimirante e ai margini della legalità ha finito col mandarla sul lastrico. Il suo imprenditore Rastelli, sostenuto e aiutato dal ragioniere Ernesto Botta, un uomo arido e poco loquace, si è sempre fatto scudo con i valori sani del made in Italy, ma alla prima occasione non ha esitato a piazzare nell'azienda amici e parenti, a falsare il bilancio, a passare cospicue mazzette a senatori e affini. La sua cattiva gestione finisce così per tradire se stesso, i suoi impiegati e l'adorato gioiellino. Ma a rimetterci sono i risparmiatori, che lui e le banche hanno ingannato e che forse non verranno mai più risarciti.


Il gioiellino è un riuscito esempio di nuovo cinema impegnato, degno erede dei Sorrentino e dei Garrone, che, complici i brillanti dialoghi e le intense descrizioni del duo Ludovica Rampoldi-Gabriele Romagnoli, analizza con acume e intelligenza la nostra società raccontandocene il perverso passaggio dal consumismo alla grave crisi, suggellato dalla costante di una comunicazione ingannevole che caratterizza e manipola anche ai giorni nostri il sistema economico, civile e politico della nazione. Toni Servillo si cala magistralmente nei panni di un ragioniere piccolo piccolo, un impiegatuccio meticoloso e un maschio dispotico che cammina col suo corpo lungo come una lancia che punta dritta al cielo, ma finirà invece per affondare nell'abisso. Il suo Ernestino, rabbioso come un cane e solitario come un misantropo, trova qualche attimo di pace solo nelle bollicine pregiate e nei rapporti carnali con le donne sotto tiro mentre arranca dietro la sua scrivania tra conti sempre in rosso, convinto che i soldi si possano "inventare" con momentanei falsi in bilancio e conti fantasma all'estero. Remo Girone è il singolare imprenditore della Leda (alias la Parmalat di cui si censurano giustamente nomi e cognomi ancora in attesa di giudizio) dal volto del premuroso pater familias e dall'aria bonaria di un uomo di provincia ostinato e conservatore che nasconde sotto il manto etico del missionario dai sani valori familiari e religiosi il marciume di sotterfugi e ricatti riprovevoli.

Con audacia s'insinua tra loro la bella Laura (Sarah Felberbaum), che alza la temperatura algida del ragioniere impenetrabile e s'infila, come i suoi parenti, nell'organigramma dell'azienda con un master in bella mostra. Ma il suo ruolo di donna in carriera determinata e sexy accenna solo a rivelare alcune sfaccettature della psicologia degli altri personaggi e resta secondario sottraendo all'attrice la possibilità di farsi notare in un cast così singolare. Notevole invece l'interpretazione di Lino Guanciale nei panni del personaggio più difficile del film, quello del fragile Magnaghi, rampollo della Bocconi combattuto inesorabilmente tra il senso della giustizia impartito dal padre e quello della lealtà imparata sul lavoro.
A metà tra un crime movie e un thriller il film di Andrea Molaioli, come l'incantevole esordio La ragazza del lago, è un'opera cupa in cui i personaggi si muovono come fantasmi di se stessi e si dirigono lungo una strada fatta di drammi e miserie. Nel lungo flashback centrale, malgrado Molaioli abbia anticipato allo spettatore un finale amaro e nichilistico, che rimbomberà nella sua memoria come il rumore iniziale degli scavi nel giardino - elegante e bellissima citazione dell'incipit del film Il caso Mattei - il regista riesce a tracciare una parabola intensa e carica di tensione. Anche stavolta nel descrivere i suoi protagonisti e le tristi vicende in cui sono coinvolti c'è un'implacabile distanza, ma contribuisce all'impatto emotivo quel devastante fondo nero esaltato sullo schermo dalla fotografia plumbea dell'impeccabile Luca Bigazzi e dalla straordinaria commistione degli archi, dei violini e del rock melodico di Teho Teardo. Il gioiellino ci trascina nell'inferno color latte delle sue ombre, lo stesso che gli verrà versato contro dagli scioperanti nell'incredibile finale dostoevskiano. Il rosso della Russia, citata a più riprese con sottigliezza, ferocia e qualche insistenza, incombe nel segno della passione per il potere e il denaro, ma il film fa riflettere lo spettatore come la più atroce delle ballate nere capaci di equilibrare scientemente l'indagine di cronaca e la detection dell'anima. Una ragione più che valida per potersi affermare come un "gioiellino" del cinema italiano giovane, che cerca spazio tra gli spettatori stanchi delle solite commedie strapparisate.