I fiori di Kirkuk: a Roma va in scena il dramma del Kurdistan

Amore e guerra nell'Iraq di Saddam Hussein. A Roma è il giorno del toccante I fiori di Kirkuk di Fariborz Kamkari.

I conflitti etnici sono al centro del drammatico I fiori di Kirkuk, coproduzione italo-svizzera-irachena diretta da Fariborz Kamkari. Focus della pellicola è la storia d'amore tra due medici appartenenti a due differenti etnie, quella irachena e quella curda, il cui problematico rapporto si consuma sullo sfondo dell'Iraq durante il regime di Saddam Hussein. Il regista e il suo nutrito cast si presentano a Roma per accompagnare il film e per confrontarsi con il pubblico desideroso di conoscere un dramma di cui nessuno parla.

Com'è nato il film? Come è iniziata la collaborazione col la componente italiana del film e con l'Orchestra di Piazza Vittorio che ha musicato il film?

Fariborz Kamkari: Io amo tantissimo il cinema italiano e ho avuto la possibilità di collaborare con l'Italia. Il film nasce da un'esperienza personale che volevo rendere collettiva, ho vissuto realmente queste esperienze mentre vivevo in Iraq. Il mio film è profondamente influenzato dal cinema italiano. E' stato il grande Rossellini a insegnarmi come raccontare la guerra attraverso le storie dei personaggi. Adoro l'Orchestra di Piazza Vittorio, è una banda multietinica, multiculturale. Ciò che hanno realizzato questi artisti nella musica è ciò che voglio fare io nel cinema e mi è sembrato naturale usare le loro musiche.

E' cambiato qualcosa nell'adattamento del libro al film?
Fariborz Kamkari: Cinema e letteratura sono due media completamente diversi. Ciò che ho preso dal libro è la componente drammatica perché in Iraq non abbiamo una tradizione drammatica. Non so se ho un pubblico ideale per questa pellicola, potrebbero essere coloro che guardano il telegiornale. Purtroppo non si conosce molto bene la storia dell'Iraq e quello che io ho fatto col mio film è raccontare le radici utilizzando una storia d'amore. Il mio film è rivolto a un pubblico internazionale interessato a saperne di più sull'Iraq.

Il cinema che cerca di raccontare il Medio Oriente utilizza spesso il punto di vista di una donna. Può essere questa la chiave per scardinare un sistema culturale così rigido?

Fariborz Kamkari: Io ho conosciuto molte donne del Medio Oriente che lottano per cambiare le leggi. In fin dei conti i diritti delle donne vengono ignorati più di quelli degli uomini, perciò quando racconti la storia delle donne racconti tutta la società.
Morjana Alaoui: E' molto importante far vedere i cambiamenti della società e non mostrare sempre le donne come derelitte e vittime della società.

Il finale del film sembra quasi documentaristico. Avete usato immagini di repertorio?
Fariborz Kamkari: In realtà abbiamo ricostruito tutto. Tutto ciò che accadeva in Iraq, i processi, le violenze che io mostro alla fine del film veniva filmato per tenere sotto controllo i soldati. Noi lo abbiamo rifatto.

Sui giornali viene annunciata l'imminente esecuzione di Sakineh in Iran. Cosa pensa di questa drammatica situazione?
Fariborz Kamkari: Il caso di Sakineh non è l'unico che purtroppo c'è in Medio Oriente. Questa situazione è stata sempre ignorata per motivi politici. Noi dobbiamo essere molto attenti ai diritti umani. Dobbiamo continuare a sostenerla. Credo che ci siamo delle somiglianze con la mia protagonista perché anche lei è una donna che lotta, cambia e si sacrifica per amore. Quanto all'Iraq, il nostro è un paese nato nel sangue, che oggi esce da un lungo periodo di dittatura, ma ci sono molte persone che lottano per cmabiare le cose.

Nonostante la recitazione di alto livello, in film come questo è difficile raggiungere un livello di verosimiglianza totale. Morjana Alaoui, per esempio, non è irachena, ma franco-marocchina. Come hai lavorato per raggiungere questo livello?

Fariborz Kamkari: Io vengo dalla sperimentazione, dalla scuola iraniana. Fin'ora ho lavorato con attori non professionisti e questa è la prima esperienza con attori veri. Abbiamo lavorato duro per raggiungere un livello di recitazione così elevato anche perché, come ho già spiegato, non abbiamo una tradizione drammatica radicata nel nostro cinema.

Hai avuto difficoltà a girare il film nei luoghi reali? Come mai finora la storia del genocidio curdo non è mai arrivata sullo schermo?
Fariborz Kamkari: Tre anni fa chiunque sentiva parlare del progetto pensava che fossimo pazzi. Nessuno credeva che saremmo riusciti a lavorare in quei luoghi. Devo ringraziare le mie due coraggiose produttrici italiane. Abbiamo avuto un set molto misto, italiano, svizzero, francese, abbiamo avuto attori che provenivano dall'Egitto. Mi pare che abbia funzionato tutto. Le autorità locali ci hanno aiutato moltissimo quindi non abbiamo mai corso alcun tipo di pericolo e ci siamo permessi un sacco di libertà. D'accordo con le autorità, abbiamo anche sconfinato. Ovviamente sarebbe stato più facile girare in Giordania fingendo di essere in Iraq, ma abbiamo preferito girare nei luoghi reali. Per quanto riguarda la troupe locale, molti di loro avevano perso realmente dei cari durante la guerra. Purtroppo lì non c'è un'industria cinematografica e all'inizio sembravamo una banda di pazzi. Quando hanno visto girare le scene chiave, le persone del luogo hanno finalmente capito cosa facevamo e ci hanno aiutato tantissimo perché c'era una grande voglia di raccontare cosa era successo. Abbiamo avuto qualche problema a trovare comparse femminili, la mentalità è molto rigida, ma alla fine è andato tutto bene. Spero che alla fine anche loro riescano a vedere il film completo. Per quanto riguarda la situazione del Kurdistan, tra i paesi che lo hanno inglobato vige omertà. Loro non vogliono che si sappia la verità né che si parli di ciò che è accaduto.

Com'è la situazione politica oggi?
Fariborz Kamkari: A Kirkuk oggi c'è ancora tensione. La popolazione sostiene la Legge 140 che prevede un referendum per decidere da quale governo essere inglobati. Purtroppo questo referendum viene sempre rimandato e i dissidi interni continuano a crescere.