Recensione Il padre e lo straniero (2010)

Imperfetto sotto tutti i punti di vista il film è diretto da Ricky Tognazzi con un incedere svogliato e poco brillante stilisticamente assai più vicino alla fiction tv, a conti fatti la formula più indicata per raccontare una storia così piena di temi e con così tanta carne al fuoco.

L'onere della paternità

E' un vero peccato che il romanzo di Giancarlo De Cataldo, scritto e pubblicato prima del successo stratosferico di Romanzo Criminale, sia finito nelle mani sbagliate. Ricky Tognazzi e consorte, con la complicità dello stesso autore letterario, confezionano infatti un film squilibrato, frammentario, che cerca di prendere mille direzioni diverse senza imboccare mai quella giusta con forza e convinzione, insomma una trasposizione non all'altezza delle potenzialità della storia d'amore paterno semi-autobiografica tanto lieve e poetica che De Cataldo aveva riposto con soavità tra le pagine del suo libro, prima di sprofondare negli abissi maledetti del suo romanzo di maggior successo.


La storia è fondamentalmente quella di un'amicizia tra due uomini di diversa nazionalità, di diverso ceto sociale, di diverso carattere, due mondi paralleli che si incontrano nel dolore, quello che portano nel cuore per i rispettivi figlioletti, entrambi affetti da un grave handicap psico-motorio. Diego è sposato con Lisa e fa l'impiegato al Ministero, mentre Walid è un ambiguo e ricchissimo uomo d'affari siriano. I due si conoscono per caso su una panchina del giardino interno della clinica dove tutti i giorni portano i bambini a fare terapia e tra loro nasce subito un'intesa e poi una frequentazione sempre più intensa. Diego vede infatti in Walid il padre che vorrebbe essere per il suo bambino ma che purtroppo non ha il coraggio di essere. E' difficile per lui ammetterlo ma il suo ruolo nella vita del piccolo Giacomino è di assoluto secondo piano perchè è Lisa ad aver preso il controllo della situazione concentrando sul bambino tutte le sue attenzioni finendo col trascurare il marito. Per l'amico Walid è tutto diverso, non è sposato, è ricco e saggio, ha accettato con serenità la disgrazia che gli è capitata riuscendo nonostante tutto a non rinunciare ad una sua vita privata. Questa apertura mentale verso il mondo e le sofferenze di Walid conquista Diego, che si lascia coinvolgere dall'amico in una serie di avventure spionaggistico-goderecce nei quartieri più mediorientaleggianti di Roma con tanto di escursione lampo in Siria. Ad un certo punto però Walid sparisce dalla circolazione lasciando Diego nei guai, ed i contorni della storia iniziano ad assumere un colore tendente al giallo...

Quando ci sono troppi galli a cantare non si fa mai giorno, diceva un vecchio proverbio. Quattro sceneggiatori tra cui lo stesso regista e l'autore della storia, un cineasta che da tempo ormai sembra aver perso lucidità non riescono a rendere giustizia ad un cast di bravi attori (poco sfruttati) composto da Alessandro Gassman, Amr Waked e Kseniya Rappoport ai quali si aggiungono Leo Gullotta, Nadine Labaki ed il bravo Emanuele Salce, questi ultimi tre costretti in personaggi minori che in qualche momento scivolano in un genere che più si avvicina al comico, e non sempre volontariamente. Il film comincia come un oscuro dramma sentimental-familiare, per poi toccare le corde del thriller spionaggistico e quelle del poliziesco, finendo col raccontare in maniera poco convincente ognuna delle diverse sfaccettature della storia.
Il confronto tra le due culture e tra le due paternità poi non è mai ben reso sullo schermo ma sempre confusionario, sconnesso e reso approssimativo da una serie inenarrabile di luoghi comuni e clichè appiccicati uno all'altro senza mai un tocco di pathos esotico, di originalità e di omogeneità. Il padre e lo straniero è anche troppo precipitoso nella narrazione e nella successione dei tantissimi (troppi) eventi che coabitano nello stesso plot, ma la lacuna più grave sta a nostro avviso nella costruzione dei personaggi, tutti poco credibili e poco coinvolgenti che intrecciano relazioni spesso senza senso che confluiscono in una narrazione pesante piena di buchi neri e snodi irrisolti.

Sorvoleremo sul finale che prova a commuovere a tutti i costi senza riuscirci peggiorando ulteriormente la situazione.Un'opera che globalmente appare senza personalità, con troppe sottostorie a spezzettare la narrazione e far passare in secondo piano quella originale che parla fondamentalmente di due padri alle prese con la malattia dei propri figli che riescono a trarre dalla loro amicizia un insegnamento importante.
Imperfetto sotto tutti i punti di vista, il film è diretto da Ricky Tognazzi con un incedere svogliato e poco brillante stilisticamente assai più vicino alla fiction tv, a conti fatti la formula più indicata per raccontare una storia così piena di temi e con così tanta carne al fuoco. Lo spettatore si perde nei meandri della noia e dell'irrazionalità, rimanendo frastornato da un continuo cambio di registro e da un susseguirsi di accadimenti senza capo né coda.
L'ennesima occasione persa dal cinema italiano e da Ricky Tognazzi per riflettere sul 'peso' della paternità.

Movieplayer.it

2.0/5