Recensione The Shock Labyrinth: Extreme 3D (2009)

Il regista abbandona la fluviale saga di 'The Grudge' per realizzare uno dei primi horror asiatici a tre dimensioni, sfruttando il potere immersivo della stereoscopia per realizzare uno strano esemplare di 'horror tattile', in cui lo spazio claustrofobico diviene metafora della intricata condizione mentale dei protagonisti.

Il labirinto della memoria

La scala a chiocciola è una metafora classica, che ricorre di frequente nella storia del cinema, soprattutto per quel che riguarda il genere thriller e noir. Nell'ultimo film di Takashi Shimizu rappresenta di certo l'immagine più emblematica, rafforzata ancora di più dalla profondità della terza dimensione. La lunga scalinata che percorre per tutto il film il fantasma di Yuki, ragazza morta in seguito a un incidente in un luna park abbandonato, oltre a risultare estremamente evocativa possiede, infatti, anche un significato simbolico. La salita cadenzata, gradino per gradino, designa un processo di progressiva "immersione" dello spettatore all'interno della storia raccontata, reso possibile proprio grazie alla tecnologia tridimensionale. E indica al contempo anche il percorso - non solo fisico, ma soprattutto mentale - intrapreso dai protagonisti del film. Si tratta non tanto di un viaggio spaziale, quanto temporale: i vecchi amici d'infanzia di Yuki tornano in quello stesso luna park a dieci anni dalla scomparsa della ragazza. Qui saranno travolti dall'improvviso manifestarsi della presenza di Yuki, che costringerà ciascuno dei giovani a far riemergere i ricordi rimossi e alterati dai traumi subiti.


Takashi Shimizu ha rivelato sin dagli esordi con capolavori quali Ju-on: Rancore e Marebito una straordinaria maestria nella gestione di spazi e ambienti, capaci di evocare un senso esistenziale di angoscia e inquietudine. Con The Shock Labyrinth 3D il regista sfrutta la medesima abilità nella rappresentazione dello spazio per realizzare uno dei primi horror asiatici a tre dimensioni (assieme al ben più deludente The Child's Eye 3D dei fratelli Pang, presentato anch'esso fuori concorso a Venezia all'interno di uno speciale focus sul 3D). L'immersione stereoscopica è per il regista l'occasione per sperimentare un insolito caso di horror "tattile" (non a caso è presente nel film anche una ragazza cieca), in cui il senso di paura viene convogliato attraverso una dimensione puramente percettiva. L'intricato labirinto fatto di impervie scale e angusti corridoi in cui si svolge pressoché interamente la narrazione, finisce, dunque, per divenire soprattutto l'espressione della confusa e inestricabile condizione mentale dei personaggi, nella quale si sovrappongono passato e presente, ricordo e immaginazione. Shimizu riesce, in definitiva, a rinnovare in modo convincente la tradizione dello psycho-horror nipponico, impiegando per una volta l'innovazione del 3D in maniera funzionale alle atmosfere e alle suggestioni del racconto.