Recensione Gorbaciof (2010)

Noir dostoevskiano con protagonista uno straordinario Toni Servillo nei panni di un giocatore d'azzardo, 'Gorbaciof', diretto dal napoletano Stefano Incerti, è una sorprendente opera cinematografica dalla geometria perfetta e dal lirismo orientale destinata a bissare il successo de 'Le conseguenze dell'amore'.

Le jene di Napoli

Il titolo trae in inganno, ma l'ultimo film del regista napoletano Stefano Incerti non è un biopic del premier sovietico. Al centro dell'opera è infatti la storia di Marino Pacileo, da tutti chiamato Gorbaciòf per una vistosa e scura voglia sulla fronte. Cupo e solitario "ragioniere di galera" a Poggioreale, l'uomo è un giocatore d'azzardo che la sera punta su migliaia di euro a poker sul retro di un ristorante cinese. Per salvare la figlia dell'indebitato proprietario, Lila, dalla prostituzione sottrae dalle casse del carcere un'ingente somma di denaro che una serie di perdite al gioco non gli permettono più di restituire. Con l'appoggio di un poliziotto corrotto si unisce allora a un gruppo di malviventi passando da contabile a criminale, ma con l'amore nel cuore.

Noir dostoevskiano, con il protagonista che fa "Il giocatore", Gorbaciof è un'opera cinematografica dalla geometria perfetta: la regia di Incerti cala con abilità lo spettatore negli abissi danteschi di un personaggio quasi animalesco che sembra non toccare mai il fondo. Ha la pelle dura Gorbaciòf, che nella tinta di quella voglia sulla fronte sempre corrugata possiede un segno tangibile della sua personalità, ma, sebbene non abbia ancora imparato il rispetto per le buone maniere e sia una lurida e disonesta jena metropolitana, è un sorprendente galantuomo che si schiera dalla parte dei deboli.

Il capolavoro di Incerti, che ha ereditato da Mario Martone la destrezza registica nel ritrarre il ventre di Napoli, ricorda per stile, storia e perfino per la caratterizzazione dei personaggi il poetico Le conseguenze dell'amore. Come il brillante Paolo Sorrentino anche Stefano Incerti e il talentuoso scrittore Diego De Silva, che hanno firmato a quattro mani la sceneggiatura, ci mostrano una faccia ambigua della criminalità, una tenerezza che zampilla perfino nell'animo disumano e spietato di chi sarebbe capace di ammazzare qualcuno a mani nude. Non è un caso che a prestare il volto a questo mostruoso derelitto della società, di poche parole - esemplari l'incipit silenzioso del film e l'intesa di sguardi con la bella Lila che parla solo cinese - che vive in uno dei quartieri più multietnici di Napoli, nei pressi della Stazione centrale, sia proprio l'eccelso Toni Servillo, che sa gestire la sua impressionante espressività e la sua corporeità di attore prestato dal teatro al cinema con straordinaria misura: gli bastano una smorfia del viso e uno scaltro sguardo diretto in macchina in una breve scena del film per conquistare i cuori dei suoi spettatori e trascinarli, portandoseli sapientemente dalla sua parte, fino alla fine del film.

Non ha nulla da farsi perdonare questa piccola sorpresa della 67esima Mostra del Cinema di Venezia, immeritatamente fuori concorso, una pellicola dall'ineccepibile lirismo orientale in cui l'intonata musica di Teho Teardo, le meravigliose performance degli attori, il totale controllo della macchina da presa, le atmosfere surreali e la trama da pulp s'incastrano come in un mosaico affascinante suggellato dall'ultimo tassello tarantiniano, costruito con un sapiente e imprevedibile colpo di scena amaro e violento che esclude ogni redenzione.