Sherlock: la prima stagione della nuova serie BBC

Direttamente da Doctor Who, gli sceneggiatori Steven Moffat e Mark Gatiss uniscono le forze per riportare l'infallibile Sherlock Holmes sul piccolo schermo, realizzando la sorpresa dell'estate, Sherlock, miniserie che trasforma il brillante investigatore vittoriano in un'icona contemporanea. In Italia la vedremo dal 18 febbraio su Joi.

Rifare un classico implica, per la natura stessa della derivazione, il confronto, un confronto che spesso nuoce alla declinazione in questione. Attingere a un (corpus) classico letterario che ha già generato trasposizioni celebri e reinventare un personaggio come Sherlock Holmes - vera e propria icona di Albione - è un azzardo così ardito da meritare ammirazione. Al cinema, il bromance action-packed di Guy Ritchie con l'iperbolico Robert Downey Jr. nei panni di Sherlock Holmes ha vinto grazie alla sfacciataggine con cui ha preso le distanze dai riveriti romanzi e racconti composti da Sir Arthur Conan Doyle, ma una versione più rispettosa può fare i conti con l'antenato letterario e gli adattamenti canonici con Basil Rathbone?
Steven Moffat e Mark Gatiss, amici di lungo corso ed entrambi sceneggiatori di un'altra icona britannica, Doctor Who, durante i frequenti viaggi in treno da e per Cardiff si raccontano reciprocamente l'antica passione per l'opera di Arthur Conan Doyle e decidono di riportare il grande investigatore sullo schermo. Il progetto diventa una produzione della Hartwoods Films e di BBC, e i due si preparano a sceneggiare un nuovo adattamento televisivo per la stagione autunnale. Nel frattempo, l'astuto personaggio vittoriano viene riesumato da un altro compatriota, l'irriverente Guy Rutchie, il quale si inventa una versione rocambolesca e adrenalinica dell'investigatore che funziona benissimo dal punto di vista dell'intrattenimento e dello humour. L'episodio pilota partorito da Moffat/Gatiss intanto è stato promosso a miniserie - tre episodi da 90 minuti ciascuno - ma posticipato all'estate successiva, non proprio l'alta stagione della programmazione televisiva.

Sherlock è andato in onda tra il 25 luglio e l'8 agosto su BBC1 (ed è già stato rinnovato per una nuova stagione), dimostrando che i tagli ai fondi BBC e le migrazioni dei britannici oltreoceano non bastano ad affondare la qualità della serialità inglese. Scritto con ironia ed eleganza, diretto con perizia cinematografica e interpretato da due protagonisti in stato di grazia e in perfetta sintonia, lo Sherlock reimmaginato da Moffat e Gatiss è una creazione riuscitissima che deve il suo successo alla profonda conoscenza dei testi di riferimento, sapientemente fusa con un'elaborazione brillante e d'intrattenimento che mantiene lo spirito dell'opera originale aggiornandola con esiti più che felici.
Interamente scritto dallo stesso Steven Moffat il primo episodio (in realtà esiste un pilota mai trasmesso ma reperibile in dvd dal 30 agosto), mentre Gatiss ha sceneggiato il terzo; il secondo è toccato all'emergente Steve Thompson. Moffat, che aveva già riscritto il Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson (l'imperdibile miniserie Jekyll), ambienta ai giorni nostri anche le avventure di Holmes e Watson e ci mostra la sua versione contemporanea dei due protagonisti. L'Holmes del XXI secolo ha una personalità vagamente "aspergeriana", non ha amici, o meglio ne ha solo uno, che incontrerà proprio nel primo episodio; il suo peggior nemico è la noia, da cui riesce ad affrancarsi solo risolvendo casi incomprensibili per chiunque altro. Il suo lavoro è più unico che raro - lo ha inventato lui -: è un consulente investigativo e lavora quasi esclusivamente per una sola persona, il detective Lestrade (un Rupert Graves nell'inedito ruolo del quarantenne anonimo) che lo interpella quando in presenza di delitti irrisolvibili. Gli altri poliziotti definiscono Holmes un freak, ma temono la sua schiettezza e la facilità con cui è in grado di spogliarli dei loro più intimi segreti con un solo sguardo.
L'unica altra persona indispensabile nella sua vita, è il Dr. Watson: sveglio, pazientissimo, umano, regolarmente scambiato per compagno dell'investigatore e irresistibilmente attratto dal lato oscuro del coinquilino, proiezione del suo stesso anelito al pericolo. Provando a sostituire il nome di Sherlock Holmes a quello di Gregory House, e quello di John Watson con James Wilson si noterebbe che la descrizione sopra vale anche per i personaggi di Dr House: Medical Division; che l'House di David Shore sia ispirato a Holmes è fatto risaputo - notiziona per chi, a distanza di sei anni, scodella ancora libretti dedicati a questo argomento esaurito da tempo - ma è inopinabile che l'elaborazione di Holmes e Watson effettuata da Shore su House e Wilson costituisce l'anello di congiunzione nella traslazione degli Holmes e Watson di Arthur Conan Doyle in quelli di Moffat e Gatiss.

Anche i due sceneggiatori britannici hanno colto l'ovvietà dell'equivoco sui termini del rapporto tra i due partner, coinquilini spesso scambiati per coppia, costretti a spiegare sia al resto del mondo che l'uno all'altro il proprio disinteresse sessuale, con esiti imbarazzanti e buffissimi. Paradossalmente, il geniale, scontroso, cinico, sopra le righe e a volte disumano investigatore è anche il trait d'union tra Sherlock e Doctor Who: dall'Undicesimo Dottore moffatiano eredita alcune "qualità", come l'asessualità e una certa ingenua pedanteria del solitario alieno, anch'egli troppo intelligente rispetto a tutti gli altri, annoiato a morte, bisognoso di avventure e di un partner che ne mantenga viva l'umanità.
A vestire i panni di Holmes, Benedict Cumberbatch, attore poco noto dalle nostre parti che in questo frangente esibisce - saranno gli occhi azzurri un po' orientali, sarà la sciarpa, saran le droghe e la convivenza con il più sensibile amico - una somiglianza impressionante con il Richard E. Grant del Brit Cult Shakespeare a colazione (co-protagonista Paul McGann, l'Ottavo Dottore...): meno povero, meno evanescente e meno disperato, ma altrettanto visceralmente londinese.

Cumberbatch, reduce da un provino folgorante e frutto di un casting azzeccatissimo, si dimostra uno Sherlock sorprendente: lo sguardo chiaro e felino è imperscrutabile mentre annichilisce i suoi interlocutori con le sue osservazioni, i lineamenti vagamente aristocratici e la figura alta e sottile fasciata nell'elegante e sobrio Belstaff gli conferiscono un'aria vittoriana e al contempo moderna. Se Holmes fosse stato un uomo del XXI secolo, sicuramente la sua curiosità e la necessità di avvalersi di strumenti di indagine sofisticati a supporto delle sue superiori doti deduttive lo avrebbero spinto a sperimentare le nuove tecnologie come internet e gprs. Sherlock fa largo uso della rete, smanetta in continuazione con l'I-Phone, scrive decine di sms al giorno, ha un sito internet dedicato alla "Scienza della Deduzione" (a sua volta Watson è google -dipendente e affida i resoconti dei casi al suo blog); ha anche un navigatore satellitare, ma quello si trova direttamente nel suo cervello: lo sappiamo grazie all'ottima regia di Paul McGuigan ("responsabile" del violento criminal Gangster No.1) che riporta, sovrimpressi ai fotogrammi, i contenuti degli sms, delle e-mail, e anche i percorsi stradali che Holmes è in grado di calcolare in modo rapidissimo durante gli inseguimenti. Il pigrissimo investigatore, infatti, diventa ipercinetico quanto quello di Ritchie quando si tratta di pedinamenti e scontri fisici, freneticamente ripresi da McGuigan - dietro la macchina da presa del primo e del terzo episodio - regista del grande schermo che trasferisce sul piccolo i tempi dell'azione cinematografica e i maestosi movimenti della mdp. Regista della puntata centrale è l'Euros Lyn di Doctor Who e Torchwood, incapace purtroppo di regalare lo stesso taglio cinematografico a The Blind Banker, episodio inferiore anche a livello narrativo rispetto agli altri due.

A Study in Pink è ricco di riferimenti all'Holmes degli esordi e illustra il primo incontro tra il detective e il medico militare: mentre il primo mette come al solito a disagio il prossimo spiattellandone i segreti, gli viene presentato un potenziale coinquilino, un reduce della guerra in Afghanistan (analogamente all'originale letterario) che zoppica a causa di una ferita (manifestazione chiaramente psicosomatica, visto che Watson era stato colpito a una spalla!). Il dottore (interpretato dal frustrato Martin Freeman del surreale The Office e della scatenata Guida galattica per autostoppisti), a differenza del resto de mondo, sopporta di buon grado l'acume e la pedanteria di Holmes, e accetta con una buona dose di incoscienza di imbarcarsi in una convivenza piena di incognite con uno sconosciuto asociale ed ossessivo. Holmes trascina la propria esistenza tra un caso e l'altro crogiolandosi in una noia insopportabile - acuita dalla decisione scellerata di smettere di fumare (sopravvive drogandosi e riempiendosi le braccia di cerotti alla nicotina) - e languendo sul divano del suo nuovo appartamento al 221B di Baker Street, affittatogli da una paziente e incauta signora ignara dell'abitudine del detective di sparare al muro.
Moffat attinge ampiamente al romanzo degli esordi Uno studio in rosso: dopo l'incontro con il candidato coinquilino, inspiegabilmente attratto dalla sua arroganza e dalle sue capacità deduttive, il detective viene chiamato da Scotland Yard a esprimere la sua opinione su un presunto suicidio: Holmes osserva il corpo della donna, vestita di un rosa acceso e amante degli accessori dello stesso colore, e si convince di essere in presenza di un omicidio. La scritta sul pavimento, la roulette russa col veleno ricalcano la traccia del romanzo, il resto è ingegno dello scozzese, che riabilita la figura di Watson restituendoli la competenza - Holmes si fida delle sue osservazioni e delle sue conoscenze mediche - e l'umanità del corrispettivo letterario. La risoluzione del caso rivela analogie con il romanzo, ma Moffat lo circonda di un alone profondamente nichilista, dalle ragioni e dai moventi quasi agghiaccianti.
Già in questa prima puntata aleggia lo spirito di Moriarty, la nemesi di Holmes; quest'ultimo non è alieno all'oscurità del cuore, e, imprevedibilmente, non lo è nemmeno Watson. Le tre figure sono accomunate dall'anelito al pericolo e all'eccitazione scatenata dal rischio, e A Study in Pink mostra un Holmes che ama danzare sulla linea di confine tra vita e morte. Sia Watson che Moriarty sono in grado di percepire questo fatale punto debole, dimostrando che anche il cuore del genio della deduzione è facilmente leggibile. Che Holmes non sia in grado di accorgersene, è imputabile alla sua illimitata arroganza e alla convinzione della sua superiorità intellettuale, tratti che Cumberbatch riesce a conferire al personaggio senza renderlo inviso al pubblico. Sherlock è anche pigrissimo, sbrigativo, egoista, egocentrico e incapace di provare empatia per le vittime, ma non manca del senso dell'umorismo.
La miniserie è costellata di battute e dialoghi divertenti e ingegnosi - quasi tutti attribuibili al cinico Holmes e all'ironico Watson -, di colpi di scena e di equivoci, come quello legato all'identità di Mycroft (lo stesso Mark Gatiss, che qui somiglia un sacco a Tim McInnerny in versione capitano Darling di Blackadder Goes Forth), il serioso fratello di Sherlock, del quale si prende cura con metodi davvero poco ortodossi.

Il caso di A Study in Pink riguarda una manciata di presunti suicidi sullo sfondo di una Londra gelida e alienante (la riprese della serie sono iniziata in un nevoso gennaio e sono costate un polso rotto a Freeman e una polmonite a Cumberbatch), The Blind Banker si concentra sulla City, la parte della metropoli dove risiedono le banche e le agenzie finanziarie con il tasso di suicidi più alti della capitale, ma questa volta la natura della morte della prima vittima indica decisamente l'omicidio. La seconda puntata, incentrata sul commercio clandestino di pezzi d'antiquariato dalla Cina, manca del ritmo e della complessità del precedente. Tra circhi cinesi, uomini ragno, archeologhe sexy e codici indecifrabili, The Blind Banker impiega un'ora e mezza a far luce su un caso che il buon Sherlock avrebbe potuto tranquillamente risolvere in un'ora, e poco aggiunge alla trama orizzontale riservata a Moriarty. Ben oltre il normale calo fisiologico previsto per l'episodio successivo al brillante A Study in Pink.

Di grande lunga migliore The Great Game, la terza e ultima puntata sceneggiata da Gatiss - lo script migliore dell'autore dai tempi del crudele I morti inquieti di Doctor Who: veloce, frenetico, diabolico, ricco di colpi di scena e con un finale che scopre finalmente le carte e definisce le relazioni tra Holmes e Watson e tra Holmes e Moriarty. Mentre il detective rifila all'amico il caso impostogli dal fratello, lui si lascia travolgere dall'eccitazione di una sfida imprevista: coinvolto in un gioco sadico, deve impedire la morte di cittadini imbottiti di esplosivo risolvendo i casi proposti da un assassino irrintracciabile.
The Great Game premia lo spettatore con un incontro ravvicinato tra Holmes e la sua nemesi. Evidenti i rischi di non azzeccare il casting dell'attore chiamato a impersonare il temibile avversario di Sherlock, mirabile la scelta finale dell'interprete. Moriarty, autodefinitosi ironicamente l'unico consulente criminale sulla piazza, è l'indecifrabile personificazione del lato oscuro di Holmes: in comune hanno gli occhi ipnotici - ma quelli di Moriarty sono pozzi scuri - un desiderio insopprimibile di soffocare il tedio, l'anelito sfrenato all'esibizione della propria superiorità, un'indifferenza per la vita altrui che in Moriarty vira a disprezzo. La presenza dell'antagonista ridimensiona il cinismo di Holmes, e il finale di The Great Game oscura la stella di Holmes, eclissata dall'(anti)materia nichilista dell'animo vuoto e oscuro dell'antagonista: il quale rappresenta il Male nella sua declinazione più spaventosa, quella fine a se stessa. A differenza di Holmes, Moriarty è capace di dominare il proprio ego e occultare la sua aura dietro mediocri e innocue personalità fittizie. Il Male a prima vista ha un volto insulso e mediocre, ma lo sguardo profondo; la voce gelida e il sorriso beffardo stonano con l'aspetto anonimo di Moriarty e rivelano, nel momento della verità, la natura diabolica tenacemente celata. A prestare il suo volto al personaggio, il semisconosciuto attore irlandese Andrew Scott (Lennon Naked, John Adams... ma non andate a cercarlo finché non avete visto l'episodio!), autentica rivelazione di Sherlock, in grado di far trasparire un'anima talmente incomprensibile e deviata da risucchiare anche Holmes. E lo spettatore.