Recensione Goodbye, Mister Zeus! (2010)

Il regista Carlo Sarti gioca la carta del cinema surreale e la sua temerarietà andrebbe premiata; nel film, però, non sono le idee a mancare quanto il ritmo che trasforma la storia in una serie di piccoli quadretti legati tra loro da un esile filo.

Un pesce di nome Zeus

Alberto è un impiegato di banca che vive in una sorta di acquario cosmico. I giorni scorrono tutti uguali, ma i guai non vengono mai da soli. Anche comprare (chiaramente in ritardo) il regalo di compleanno per la dispotica fidanzata Adelaide diventa una sorta di grottesco Giochi senza Frontiere. Nel giro di pochi minuti Alberto tampona un auto, dà una sportellata ad un ciclista e viene derubato. Senza soldi e con poche idee decide di sostituire il cucciolo di levriero afgano che la sua donna sperava di trovare 'impacchettato' con un più economico pesce rosso. Il povero Alberto si prende una bella porta sbattuta in faccia, in compenso trova un amico 'sincero'. L'esemplare di Carassius auratus trasloca a casa sua con tanto di boccia trasparente e sul più bello, con uno scodinzolio degno di un cane, inizia a comunicare con il suo nuovo coinquilino. Il bancario non crede ai suoi occhi, ma alla fine si dimostra entusiasta di quella scoperta. In poche ore il pesciolino riesce a far capire ad Alberto quello che l'impiegato non ha mai compreso in tutta una vita e cioè che quella esistenza apparentemente controllata e serena era in realtà l'anticamera della disperazione. Il piccolo Zeus, destinato dalla biologia a vivere in uno spazio ristretto, ambisce a cose più grandi e traccia ad Alberto la strada da seguire. Per una serie di equivoci e disgrazie, però, l'uomo perde il lavoro, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico (vagava nudo per Bologna fantasticando di un pesce parlante...) e rinchiuso in carcere per aver tentato una rapina alla sua vecchia banca con l'aiuto del prode Zeus. E Adelaide? Fedele nei secoli la donna gli sta vicino finché può, salvo fare retromarcia quando Alberto sfrutta la libertà condizionata per fuggire in Svizzera con l'amico pinnato. Obiettivo di entrambi è trovare finalmente il proprio posto nel mondo. In fondo, come recitava l'Edward Bloom del Big Fish di Tim Burton, "Tenuto in un piccolo vaso il pesce rosso rimarrà piccolo, in uno spazio maggiore esso raddoppia, triplica o quadruplica la sua grandezza".

Al di là di ogni metafora ittica (particolarmente in uso tra i cinefili, basti citare Monty Python: il senso della vita), lo scrittore-paleontologo Carlo Sarti gioca con Goodbye, Mister Zeus! la carta del cinema surreale. Proprio per questo ci sono voluti lunghi anni per portare il film in sala. Nonostante il plauso della commissione del Ministero dei Beni Culturali, infatti, sono mancati i finanziamenti pubblici e produzione e autore hanno dovuto comprensibilmente lottare per far vedere la luce alla loro 'creatura'. La temerarietà di Sarti, dunque, andrebbe sottolineata e premiata, se non altro perché dimostra come si possa fare qualcosa di diverso (almeno nelle intenzioni) nel tempestoso mare del cinema. Magari partendo da una storia con buone potenzialità che metta a fuoco il rapporto tra un travet depresso e un pesce rosso; una sorta di alter-ego che, imprigionato dalle pareti trasparenti del suo acquario, manifesti apertamente la frustrazione che Alberto, interpretato da Fabio Troiano (bravo ma leggermente sottotono), non riesce a realizzare appieno. Tutto questo senza stucchevoli antropomorfizzazioni, né effetti speciali irreali.

E' però proprio il rapporto tra i due assi portanti della storia, l'uomo e il pesce, a latitare in questa commedia sui generis. Nel film il tempo si contrae e non si riesce ad apprezzare quella strana empatia che lega Alberto a Zeus, una relazione vagamente abbozzata e mai del tutto definita. Non sono le idee a mancare (la sceneggiatura ha vinto il prestigioso premio Solinas nel 1998), quanto il ritmo. La prima parte, in cui tutto ruota attorno alle catastrofi che il povero protagonista colleziona senza soluzione di continuità, risulta fiacca e poco brillante; la seconda, in cui la storia fisiologicamente si sedimenta, non sorprende più di tanto e lo 'straordinario' contenuto in questa favola moderna diventa una triste ordinaria amministrazione. Il racconto finisce per sommare una serie di piccoli quadretti legati tra loro da un esile filo, un piccolo tocco fantasioso la cui indubbia carica poetica ha però poca forza di impatto. A prevalere è la descrizione della liaison sentimentale tra Alberto e Adelaide, l'algida Chiara Muti, una donna ossessionata dall'aspetto fisico che vuole avere il controllo su tutto, in primis sul suo compagno, trattato alla stregua di una dichiarazione dei redditi. Non sembra strano quindi che Alberto trovi un pizzico di sognata libertà proprio tra le pareti del carcere dove conosce gente svitata ma di buon cuore (efficace come sempre l'interpretazione di Max Mazzotta nei panni di Procolo). L'opera dunque arranca in un registro narrativo irrisolto, sospeso a mezz'aria tra commedia carica di gag e amara riflessione sulle incertezze umane dei nostri giorni. Il risultato finale non è totalmente insoddisfacente, ma nel complesso poco leggero. Ed è un vero peccato.

Movieplayer.it

3.0/5