Recensione Sono viva (2008)

Un sapiente uso della macchina da presa e dei meccanismi della tensione emotiva sono i punti di forza dell'esordio alla regia di Filippo e Dino Gentile, che qui descrivono una parabola di riscatto e riscoperta di se stessi senza assumere un atteggiamento altisonante o moralista.

Quando la morte insegna a vivere

Guardando alla propria cerchia di conoscenze, la cosa più probabile è quella di trovarsi di fronte ad una maggioranza di persone oneste, di indole pacifica, la cui determinazione nel fare sempre la cosa giusta, spesso più nei confronti delle aspettative altrui che per se stessi, ha condannato a una vita di insoddisfazioni. Che sia un morto a cambiare lo stato delle cose sembrerebbe prerogativa di un racconto di Charles Dickens, e invece anche l'esistenza di Rocco avrà bisogno di un aiuto dall'aldilà per ritrovare senso e spessore.
Invece di un fantasma, qui è però un normale cadavere a palesare la necessità di un nuovo inizio nella vita del protagonista: è quello di Silvia, una giovane donna che Rocco e l'amico Gianni devono vegliare per una lunga notte, dietro lauto compenso da parte del facoltoso padre. Dopo essere stato abbandonato a se stesso dall'amico, più in vena di divertirsi che di lavorare, Rocco dovrà però vedersela prima con il festaiolo fratello di Silvia, e poi con l'ex giardiniere romeno della villa, dal quale la ragazza aveva avuto una figlia. Padre, fratello e amante hanno però dato tutti una diversa versione delle circostanze della morte di Silvia: disturbato da questa ambiguità, che nega il giusto rispetto alla memoria della ragazza, Rocco deciderà di scoprire la verità, ribellandosi per la prima volta all'acquiescenza che aveva sempre dimostrato.

Sono viva è innanzi tutto un viaggio intimista nella storia e nelle sensazioni di un uomo normale, oppresso, come tanti, da problemi di lavoro e incertezze affettive. La difficoltà di vivere al tempo del precariato, tra le aspettative di stabilità di una compagna e le recriminazioni di un padre deluso, occupa l'intero universo di Rocco, che pure, messo davanti ad un'ingiustizia meno ordinaria di quelle da lui subite ogni giorno, trova la forza di agire secondo coscienza. La trasformazione di Rocco è conseguenza di un crescendo di tensione ben orchestrato dalla regia: con il passare delle ore e l'intervento degli altri estemporanei ospiti della casa, la situazione prende contorni sempre più surreali, in netto contrasto con il crudo squallore della quotidianità. I due autori scelgono esasperare questo scollamento differenziando la tecnica di ripresa: mentre nelle scene in esterno predomina la camera a mano, l'atmosfera claustrofobica e plumbea della casa viene messa in risalto da lunghi piani sequenza. La morte di Silvia e il luogo in cui è avvenuta invischiano Rocco in una ragnatela di dubbi e possibilità a cui non può sottrarsi, nemmeno per inseguire un altro mistero, quello della bella barista Stefania. In questa tormentata discesa verso gli inferi, Massimo De Santis si mostra capace di far fronte alla responsabilità, dando vita ad un protagonista inquieto e rassegnato insieme, estremamente reale nella sua normalità.

Ma oltre a quella prettamente personale, il film ha anche una componente di indagine sociale, in cui l'istituzione della famiglia, e più in generale il mondo degli affetti, vengono dipinti a tinte fosche.

Il padre, il fratello e l'ex compagno di Silvia sono personaggi sofferti, lacerati dalla disparità tra le proprie intenzioni e le proprie azioni, condannati a confrontarsi con una parte di se stessi che quasi non si rendono conto di avere. L'ottima resa su schermo di questo ulteriore spunto di riflessione è merito tanto della sceneggiatura, ancora a cura dei fratelli Gentile, come delle convincenti interpretazioni offerte da Giorgio Colangeli, Guido Caprino e Vlad Toma.
Un sapiente uso della macchina da presa e dei meccanismi della tensione emotiva sono i punti di forza dell'esordio alla regia di Filippo e Dino Gentili, che qui descrivono una parabola di riscatto e riscoperta della propria forza interiore senza assumere un atteggiamento altisonante o moralista. Quella di Rocco è una piccola, grande conquista resa possibile dall'incontro con una dimensione che sembra quasi irreale proprio perché del reale ha fin troppo: tutte le sofferenze di un padre, di un fratello, di un emerito sconosciuto hanno permesso al cadavere di Silvia di farsi simbolo di quel bisogno di verità che, nonostante tutti i compromessi, ci fa tirare avanti.