Recensione La première étoile (2009)

Attraverso un registro semplice e lieve, con frequenti concessioni a momenti di pura comicità, il film del regista, co-sceneggiatore e attore di origini antillane Lucien Jean-Baptiste solleva in realtà temi molto problematici, come la difficoltosa ricerca di una propria identità da parte del popolo migrante.

Pourtant que la montagne est belle

"Lasciano uno ad uno il paese per andare a guadagnarsi da vivere, lontano dalla terra dove sono nati...", così recita un verso della canzone tradizionale La montagne di Jean Ferrat, che parla di pastori e contadini costretti ad abbandonare i loro paesi per andare a lavorare nelle metropoli. Fin qui tutto normale, se non fosse che a interpretare il testo è la piccola Manon, bambina meticcia nata dall'unione del nero di origini antillane Jean-Gabriel e dalla bianca francese Suzy. È la scena chiave de La première étoile, commedia che ha saputo conquistare il pubblico d'Oltralpe per la levità e la semplicità con cui affronta temi in realtà molto complessi e problematici, come il métissage culturale e la difficoltosa elaborazione di una propria identità da parte dei migranti di diverse generazioni. Manon ha imparato il testo de La montagne a scuola, da un'anziana maestra che ripropone i canti della tradizione francofona a uno svogliato uditorio di scolari. Manon esegue quella canzone in una gara canora che si tiene in un ritrovo sciistico sulle Alpi, dove con estrema fatica (viste le difficoltà economiche) il padre Jean-Gabriel è riuscito a portarla. Durante la sua esibizione succede qualcosa di incredibile: all'inizio accolta con toni fastidiosamente razzisti dal presentatore ("Che bel cioccolatino, ti mangerei!"), Manon interpreta il brano in maniera perfetta, molto meglio di qualunque altra concorrente francese purosangue, conquistandosi una sonora ovazione da parte di tutto il pubblico locale. Paradossalmente proprio lei, per metà creola, diventa in quel magico momento la vera depositaria della cultura francese. Ma al tempo stesso quel canto di nostalgia per le bellezze ormai lontane della propria terra d'origine, attraverso la sua interpretazione, assume un significato completamente nuovo, calato nel contesto di un'altra cultura, di altre migrazioni. Realtà geografiche e sociali del tutto differenti, esperienze generazionali lontanissime si fondono per un attimo, nella semplicità delle strofe di una canzone.

Questa sequenza racchiude forse tutto il senso de La première étoile, opera interamente concepita da Lucien Jean-Baptiste, attore originario della Martinica che qui si mette in gioco, oltre che come interprete principale, per la prima volta anche come regista e co-sceneggiatore al servizio di un racconto estremamente personale. Jean-Gabriel, marito fannullone e padre sconsiderato, promette incautamente ai suoi tre figli di portarli a sciare sulle Alpi, proprio dove vanno le famiglie dei loro compagni di scuola bianchi e borghesi. Nonostante le difficoltà economiche, è costretto ormai a mantenere l'impegno e ad assumersi interamente la responsabilità della vacanza, altrimenti la già esasperata moglie Suzy lo lascerà definitivamente. Così padre, figli e l'anziana ma ardimentosa nonna (interpretata dalla vulcanica Firmine Richard) si avviano con mezzi di fortuna à la montagne, e Jean-Gabriel dovrà industriarsi con ingegnosi espedienti per far fronte alle numerose avversità.
Il canovaccio di partenza, basato peraltro su reminiscenze autobiografiche dell'attore-regista, è lo spunto per giocare sul ribaltamento dei consueti stereotipi razziali in chiave per lo più farsesca, con notevoli concessioni a gag comiche d'ascendenza slapstick (cadute e capitomboli vari sulla neve). Eppure la sceneggiatura, nonostante si lasci andare a concessioni per il grande pubblico (in particolare giochi di parole sulla contrapposizione "bianco/nero") che semplificano inevitabilmente la portata dello scontro culturale, riesce comunque a suggerire spunti di riflessione sul tema della multiculturalità. E vengono fuori concetti interessanti: ad esempio il fatto che per il popolo migrante la definizione della propria identità sia frutto di continue negoziazioni e compromessi tra la cultura d'origine e quella in cui si emigra. Il pregio de La première étoile è quello di concentrarsi in modo inedito sulla componente "nera" della famiglia mista, delineando un ritratto a più generazioni (dalla nonna anziana, che si professa gollista perché a scuola le insegnavano canzoni sul Presidente de Gaulle, fino ai nipotini ormai uniformati al modello bianco dominante) che tentano con difficoltà di trovare una propria collocazione identitaria nella società.

Non si vedono in giro molti film che hanno per protagonisti migranti di prima o di seconda generazione, soprattutto se rivolti a un pubblico mainstream. Quei pochi che vengono realizzati sono girati e scritti per la maggior parte da bianchi che affrontano il fenomeno dell'integrazione dal loro punto di vista. La première étoile andrebbe sostenuto in primo luogo perché rappresenta il tentativo - seppure incanalato attraverso il genere più docile e tranquillizzante della commedia - da parte di questa categoria di cittadini, sempre più preponderante nelle moderne società multietniche, di rappresentarsi attraverso il cinema e di costruirsi una propria immagine personale.