Recensione If I Want To Whistle, I Whistle (2010)

Alla sua opera prima, Serbian si iscrive in quel corpus magmatico che è il nuovo cinema rumeno e racconta una storia carceraria di ineluttabilità con impeto e generosità e con un occhio politico alla realtà

La libertà negata

A cinque giorni dalla fine della sua detenzione al carcere minorile, Silviu scopre che la madre, con cui non ha rapporti da anni, ritornata in patria, ha intenzione di ripartire per l'Italia portando con sè suo fratello minore. I pochi giorni che lo separano dalla libertà e dai suoi sogni, diventano un'odissea, costretto a barcamenarsi tra le angherie del carcere e cercando di non perdere il fratello, che Silviu considera al pari di un figlio a cui vuole risparmiare la vita che la madre ha in serbo per lui. Fallito il tentativo di convincerla attraverso un incontro nel carcere, sarà costretto alle vie più estreme, a costo di sacrificare la sua libertà.

Esiste una new wave rumena o è un'invenzione di noi cannibali di cinema sempre pronti a immaginare estetiche e intenti definiti dove non ce ne sono? A vedere If I Want To Whistle, I Whistle, selezionato in concorso alla sessantesima edizione del festival di Berlino e a confrontarlo con il pugno di altri film rumeni che hanno scosso pubblico e critica agli ultimi festival internazionali si direbbe proprio che esista. L'opera prima di Florin Serban si inserisce nel filone aperto da Cristian Mungiu con 4 Mesi, 3 Settimane e 2 Giorni e conferma il fermento del cinema rumeno contemporaneo, sorretto da un corpus di opere che ambisce a raccontare le cose e il mondo circostante con sguardo vigile e diretto, senza troppe mediazioni o compromessi. Un cinema "politico" cui dovremmo trarre insegnamento, che anche quando sembra rinchiuso in una dimensione esclusivamente biografica come in If I Want To Whistle, I Whistle, si dimostra capace di raccontare la Romania moderna e il suo coacervo di contraddizioni economiche e sociali.
Serban ha le idee molto chiare e pedina nervosamente il suo attore (George Pistereanu) e i suoi ultimi tormentati giorni di carcere con tutta la grammatica tipica del cinema realista, incollandosi ossessivamente alla faccia del suo protagonista, vivendone gli stati d'animo, aggrappandosi a una messa in scena dalla fisicità dirompente e prendendosi tutto il tempo necessario (a volte esagerando anche nel soffermarsi su alcuni particolari), prima dell'incontro con la madre, scena fondamentale e di grande potenza; zona liminale di un dramma pronto a intraprendere la via della nera ineluttabilità. Perché da lì tutti sappiamo che Silviu, abbandonato a sé stesso, è pronto a mettere in gioco la sua vita, a due giorni dalla sua scarcerazione, solo per impedire alla madre di dare al fratello la sua stessa miserabile esistenza. Ma il regista rumeno ce lo racconta con un impeto e una generosità indiscutibili, senza ammiccamenti o scorciatoie. Ecco perché il beffardo finale, apparentemente pretestuoso e sopra le righe, finisce per fungere da grido di allarme su una condizione che esclude ogni possibilità di redenzione e riaffermazione sociale. Non importa che si tratti di un semplice caffè da consumare con una ragazza o una vita da vivere senza gli spettri del carcere, per Silviu c'è solo un mondo impossibile da raggiungere, se non con la forza e la disperazione.