Recensione Il mio nome è Khan (2010)

Primo evento fuori concorso alla Berlinale, 'My Name is Khan' parte come una sorta di 'Rain Man' in salsa curry, per poi buttarci dentro di tutto: l'undici settembre, la guerra in Afghanistan, l'uragano Katrina, il presidente Obama...

Ich bin Khan

"Al mondo esistono solo due tipi di persone: quelli buoni che fanno buone azioni e quelli cattivi che commettono cattive azioni": questa frase, che pronuncia la mamma del piccolo indiano di fede musulmana Khan, emarginato perché vittima della sindrome di Asperger, racchiude in un colpo solo tutto l'universo di valori di My Name is Khan. La dichiarazione, in realtà, può adattarsi bene a descrivere le basi su cui si fonda l'intera sterminata produzione di Bollywood, costruita proprio sulla schiettezza e la semplicità manichea delle storie, sulla ricorrenza di situazioni tipiche (in cui primeggia la storia d'amore tra i due attraenti protagonisti), su uno stile visivo colorato, estetizzante, patinato, ritmicamente segnato dall'incalzare della colonna sonora.


Dati questi presupposti My Name is Khan, diretto dal giovane astro nascente di Bollywood Karan Johar, e interpretato da una delle coppie più acclamate e macina-incassi del cinema indiano, Shah Rukh Khan e Kajol, sarebbe soltanto l'ennesimo blockbuster in salsa curry. Gli ingredienti, infatti, sono sempre quelli: la durata chilometrica, la componente musicale, la recitazione calcata (in particolare quella di Shah Rukh Khan nelle vesti di autistico), il riferimento ad analoghi successi americani (in questo caso soprattutto Rain Man e Forrest Gump, ma sotto sotto anche Mr. Smith va a Washington). Invece le cose non stanno proprio così, perché il regista Karan Johar e la sceneggiatrice Shibani Bathija tentano in questo caso un approccio quasi del tutto inedito: la commistione dei temi e dell'estetica del cinema di Bollywood con un'inedita attenzione per l'impegno politico e sociale, ed è probabile che questa sia la ragione che ha incuriosito i selezionatori della Berlinale tanto da includere il titolo fuori concorso.

Khan, infatti, dopo la tragedia dell'undici settembre, si trova a subire discriminazioni non soltanto per la sua malattia, ma anche per la sua religione. A partire da questa svolta "politica", il film diventa una sorta di pamphlet di denuncia contro i soprusi che la popolazione di credo islamico è destinata a soffrire dopo l'inaugurazione della politica del terrore americana. La crociata di Khan, che vuole parlare a tutti i costi con il presidente degli Stati Uniti solo per dirgli: "Il mio nome è Khan e non sono un terrorista", finisce per intercettare il lamento di tutti i bisognosi e gli emarginati degli Stati Uniti, incluso un gruppo di afroamericani devastati dall'uragano Katrina.

Il problema di fondo di My Name is Khan è che Bollywood non è in grado di rappresentare la realtà. La Mecca del cinema indiano è interamente votata a una produzione d'intrattenimento puro, dove una rappresentazione estetizzante e patinata del mondo si accompagna necessariamente a intrecci semplici, facilmente comprensibili da tutte le fasce della popolazione locale. Qualunque tentativo di inoculare germi politici e militanti in simili produzioni finisce solo per essere controproducente: la complessità di cui necessitano certi temi per essere affrontati finisce per originare solo stereotipi imbarazzanti e populismo spinto. Eppure il film è stato enormemente apprezzato dalla critica indiana. Segno che la cinematografia più imponente del mondo (in termini di ampiezza di pubblico e di film prodotti) rimane ancora troppo "aliena" agli occhi delle nostre consuetudini da spettatori occidentali.