Recensione Bella (2006)

Una storia raccontata con sensibilità per il debutto di Alejandro Gomez Monteverde, che ha per scenario una New York colorata ma troppo frenetica, nella quale i due protagonisti riescono a tracciare un nuovo percorso ai loro destini, drammaticamente segnati.

Rinascere a New York

Con quattro anni di ritardo, fa capolino nelle nostre sale Bella, lungometraggio d'esordio del regista messicano Alejandro Gomez Monteverde che ha ottenuto diversi riconoscimenti in ambito festivaliero - uno dei quali a Toronto - e soprattutto grandi consensi tra le associazioni pro-life, contrarie all'aborto. E' la storia di due personaggi che, nel giro di poche ore, riescono a cambiare i propri destini, drammaticamente segnati. José e Nina lavorano nel ristorante messicano del fratello di lui, Manny, un uomo dispotico più interessato al prestigio del proprio locale e a far soldi, piuttosto che a instaurare un vero rapporto di collaborazione con i suoi dipendenti. Bastano pochi minuti di ritardo, e Nina viene licenziata. Ha appena scoperto di essere incinta, è disperata e Jose decide di seguirla, piantando il suo lavoro in asso. A poco a poco, mentre i flashback delle loro storie iniziano a combaciare come in un puzzle, si scopre che Jose era stato una star del football, che all'apice del successo aveva visto la propria carriera e la propria esistenza, sbriciolate da un grave incidente e da enormi sensi di colpa. Dopo aver investito una bambina infatti, il giovane finisce in carcere, e successivamente viene assunto da Manny, che gli affida un ruolo di prestigio in cucina. La sua vita però è svuotata dai rimorsi e procede senza un vero scopo. Quando Nina gli comunica di essere rimasta incinta, e di volersi liberare del bambino, Jose cercherà di starle accanto fino a quando non riuscirà a trovare una soluzione che possa riscattare i destini di entrambi.

Nonostante in alcuni punti la narrazione risulti poco chiara, il film di Monteverde riesce a catturare l'attenzione dello spettatore senza essere eccessivamente prevedibile: per una volta i due protagonisti del film non sono amanti, e la loro storia è quella di un rapporto sincero che si sviluppa in una New York frenetica, nella quale ognuno vive ciecamente la propria esistenza, senza guardarsi realmente attorno. Il montaggio rapido e la bella fotografia densa di colore firmata da Andrew Cadelago (già layout artist per la Pixar) contribuiscono a rendere l'idea di uno scenario vitale, ma nel quale non c'è tempo per vivere davvero: si va avanti "come in un orologio vivente" o si resta indietro. I due ragazzi - interpretati dal fascinoso Eduardo Verástegui, e la brava Tammy Blanchard - dovranno allontanarsi momentaneamente dalla frenesia della Grande Mela, per poter allacciare i rispettivi destini e trasformarli, dopo aver trascorso la sera su una spiaggia, con i volti illuminati dalla luce di due lanterne.
Nonostante l'atteggiamento di Monteverde non sia di aperta condanna nei confronti di chi decide di abortire, a convincere le associazioni pro-life sarà stato sicuramente il finale dal notevole impatto emotivo, che farà storcere il naso ai più cinici e chiude il film in maniera quasi parabolica. Tuttavia, il punto di forza del film non è tanto nella sua conclusione, quanto nel modo in cui gli eventi vengono raccontati - con una certa sensibilità propria del cinema indie - e nell'interpretazione convincente dei due protagonisti. Una delle scene più toccanti del film è quella in cui Nina viene avvicinata da un ambulante non vedente che le chiede di descriverle la giornata newyorkese, e nel sorriso imbarazzato della ragazza, titubante a descrivere qualcosa di così semplice, si svela l'inadeguatezza della società moderna, troppo "cieca" nei confronti della vita.

Movieplayer.it

3.0/5