Recensione A Christmas Carol (2009)

Il nuovo approccio tridimensionale di Zemeckis traduce la progressione lineare del racconto dickensiano in una chiave inedita, che tenta di stimolare soprattutto le reazioni sensoriali e percettive degli spettatori. Recuperando l'atmosfera gotica che animava la novella originale, il film getta il pubblico in una dimensione oscura e orrorifica, dando vita a una rappresentazione turbinosa e allucinatoria.

Fantasma(goria) di Natale

Nella sequenza iniziale di Forrest Gump una piuma mossa dal vento compiva una danza sinuosa che, accompagnata da un vertiginoso movimento della macchina da presa, andava a descrivere un intero mondo, introducendo agli spettatori il vasto teatro in cui si muoveva l'azione del piccolo (ma grande) protagonista. A Christmas Carol esordisce con la stessa acrobatica inquadratura aerea, resa ancora più vorticosa dalla macchina da presa virtuale, che rende vivo e pulsante agli occhi del pubblico l'universo di finzione generato nel 1843 dalle pagine di Charles Dickens. L'unica differenza è che, mentre nell'incipit del film del 1994 compariva un unico elemento digitale - appunto la fatidica piuma -, nella trasposizione tridimensionale del Canto di Natale invece non esistono più oggetti o persone dotate di una consistenza reale e corporea. Basterebbe solo questo piccolo particolare a rendere conto dei mutamenti radicali verificatisi nel corso di questi quindici anni all'interno dell'industria cinematografica, nonché a descrivere l'evoluzione stilistica di Robert Zemeckis, un regista che ha fatto dell'immaterialità e della "fantasmaticità" la sua personale poetica.

In fondo, Zemeckis nel corso della sua ormai più che trentennale carriera non ha fatto altro che raccontare storie di fantasmi e di viaggi nel tempo. La trasposizione sullo schermo di una vera e propria opera istituzionale della cultura anglosassone come A Christmas Carol di Charles Dickens - secondo il parere del regista "la migliore storia sui viaggi nel tempo mai scritta" - appare dunque come un passaggio del tutto naturale e coerente all'interno del suo percorso cinematografico. Il cinema di Zemeckis (al pari di quello del suo collega Peter Jackson, che guarda caso proprio con il suo ultimo Amabili resti ha portato sulla scena un altro racconto di "fantasmi") ha sempre tentato di svincolarsi dalle limitazioni fisiche del reale. I corpi zemeckisiani sono stati di volta in volta sottoposti a un processo di cartoonizzazione (Chi ha incastrato Roger Rabbit?); resi eterni e indistruttibili (La morte ti fa bella); resuscitati (i personaggi storici di Forrest Gump) e persino trasformati in oggetto come il signor Wilson di Cast Away. I film del regista, inoltre, sono sempre popolati da esseri che provengono da dimensioni "altre": i viaggiatori del tempo della saga di Ritorno al futuro, il papà extraterrestre di Contact e i fantasmi di Le verità nascoste. La sua filmografia ha già attraversato il tempo, la storia degli Stati Uniti e persino il mito (con Beowulf): più che giusto dunque che si getti a capofitto anche nel cuore della letteratura classica con A Christmas Carol, attraverso un movimento di "immersione" reso possibile solo grazie alla tridimensionalità.
La tecnologia della performance capture, già adottata da Zemeckis per Polar Express e Beowulf, consente l'ultima, e più radicale, svolta all'interno del suo cinema: svincolarsi perfino della fisicità degli attori, le cui interpretazioni vengono catturate digitalmente per essere in seguito completamente rigenerate attraverso gli effetti speciali computerizzati. Il paladino delle nuove, illimitate, possibilità concesse dalla performance capture non poteva che essere Jim Carrey, attore che sin dagli esordi con The Mask, fino alle prove più recenti di Il grinch e Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi, ha sempre tentato di portare le sue doti espressive oltre il limite fisico, tentando di fuggire persino dalla gabbia del proprio corpo. In A Christmas Carol il camaleontico interprete moltiplica letteralmente la propria interpretazione, prestando la propria voce e il proprio corpo virtualizzato a un caleidoscopio di personaggi: Ebenezer Scrooge in tutte le sue evoluzioni temporali (bambino, giovane, adulto, anziano) e i tre spiriti natalizi del racconto di Dickens. La medesima sfida ha interessato anche gli altri componenti del cast, da Gary Oldman a Bob Hoskins, che hanno dovuto calarsi nei panni digitali di molteplici caratteri, a volte molto diversi tra loro.
Aderendo in maniera scrupolosa al testo originale, e attenendosi perfino alle illustrazioni di John Leech a corredo della prima edizione a stampa del 1843, Robert Zemeckis imbastisce questa ennesima versione per immagini del Canto di Natale mostrando un rispetto reverenziale nei confronti dell'opera e seguendo un approccio di tipo manierista, simile a quello della trasposizione cinematografica del Il Signore degli Anelli di Peter Jackson. L'inedito impianto tridimensionale traduce, però, la progressione lineare del racconto di Dickens in una nuova chiave, che tenta di stimolare soprattutto le reazioni sensoriali e percettive degli spettatori. Recuperando l'originale atmosfera gotica che animava la novella dickensiana, il film getta il pubblico in una dimensione oscura e orrorifica (non priva di annotazioni disgustose, come la mascella oscillante e sputacchiante del fantasma di Marley). Il risultato finale è una rappresentazione turbinosa e allucinatoria, caratterizzata da interminabili sequenze di volo, di cadute a precipizio, di inseguimenti frenetici e rocamboleschi.

L'impianto morale insito in A Christmas Carol cede, insomma, il passo a una nuova impostazione che pone in primo piano un'inusitata componente fantasma(gorica), con effetti a tratti ludici, a tratti quasi allucinatori. Lo spettatore, trascinato nel bel mezzo dell'azione, finisce così per danzare (e il termine carol rimanda etimologicamente proprio al ballo) da una sequenza all'altra: come l'ormai celeberrima piuma di "forrestgumpiana" memoria.