Recensione Nessuna verità (2008)

Il film di Ridley Scott prova a coniugare azione e riflessione in un unico contenitore, costruendo una spy story che prova a fare i conti con la complessità del mondo moderno.

Tra verità e menzogna

"Non prendere gli ebrei e i cristiani come tuoi alleati. Chiunque lo faccia, è sicuramente uno di loro". Così si esprime uno dei protagonisti del nuovo film di Ridley Scott, Nessuna verità, e si tratta di una frase che riassume, anche se con qualche approssimazione, la cifra di una pellicola che segue un binario di riflessione sulla complessità del mondo moderno nonostante, o forse coadiuvata, dalla confezione da blockbuster di pura action adrenalinica con la quale il regista di American Gangster ci presenta la propria storia.

Roger Ferris e Ed Hoffman sono due player che giocano nella stessa metà del campo, quella del controspionaggio statunitense, nello scacchiere mediorientale, tra Giordania, Siria, Turchia e, soprattutto, Iraq, anche se, a ben vedere i ruoli che ricoprono sono profondamente diversi.
Roger è un giovane quadro della sezione Medio Oriente di Langley, uomo di punta sguinzagliato sul territorio, pistola, uzi e carta bianca per raggiungere di volta in volta gli obiettivi prefissati, siano essi i contatti con un informatore o l'eliminazione di pericolosi terroristi quaedisti. Ed al contrario muove le fila dalla seconda linea, dal di dentro della stanza dei bottoni: colletto bianco ed auricolare, è lui ad impartire gli ordini, a determinare le strategie, tenendo sotto controllo la situazione da una stanza posta a migliaia di kilometri dal teatro delle operazioni.

Il contrasto che emerge a prima vista, anche da questa breve descrizione, è evidente sin dalle prime battute del film, introducendo e sostanziando la riflessione portata avanti da Scott, che si conferma tra i primi della classe nell'affrontare tematiche di un certo spessore sociale e culturale confezionandole in modo da poter raggiungere il pubblico più pigro e disinteressato. Nessuna verità è infatti innanzitutto un solido prodotto di intrattenimento, che ricorda vagamente, nella dinamica della narrazione - e nella conflittualità tra la generazione dei capelli sale e pepe seduta dietro alla scrivania con quella rampante ed idealistica dei giovani dei servizi segreti operativi in loco - Spy Game, girato dal fratello di Ridley, Tony Scott. Sostituite Brad Pitt a Leonardo Di Caprio, Robert Redford a Russell Crowe, e avrete un'idea di massima dell'andamento della storia, che pur appare più meditativa e riflessiva rispetto ai ritmi sincopati della pellicola dello Scott più giovane.

Che l'autore di Blade Runner voglia, oltre che appassionare il proprio pubblico ad una storia, stimolare ad una riflessione, lo si coglie dalla citazione in esergo che precede il film, del poeta e romanziere statunitense Wystan Hugh Auden: "Io e il pubblico sappiamo quel che tutti gli scolari apprendono: coloro cui vien fatto male male fanno in cambio". Sin da subito dunque, nonostante la sceneggiatura poi porti verso una lettura più manichea degli eventi, la problematicità di uno scontro che coinvolge il "mondo occidentale" da un lato, e gli estremisti islamici dall'altro appare evidente, sottolineata dalla parte rilevante che nel film ricoprono coloro che stanno nel mezzo, dalla semplice gente del popolo ("non voglio morire da martire, voglio andare in America, ho un dottorato io!", si sentirà dire in una sequenza particolarmente efficace), ai servizi segreti di paesi che devono barcamenarsi tra la grande potenza economico-militare degli Stati Uniti, e la guerriglia urbana che i jiaidisti portano fin sulla soglia delle loro case.

Il montaggio in parallelo che accosta Di Caprio e Crowe a partire dai primi istanti, pur denotando una certa ingenuità (con il primo contuso e tumefatto, inseguito da proiettili ed Rpg, ed il secondo che gestisce placidamente la situazione da un auricolare, mentre porta a scuola i figli o va a spasso con il cane), introduce un imperativo morale non trascurabile: può una guerra, qualunque sia la motivazione che la sostiene, definirsi giusta? Scott non offre una risposta palese, anche se la direzione del film, fino alla sua conclusione dolceamara, è, come già detto, chiara e ben definita dalle scelte di narrazione.
Un film di genere ben fatto, che dimostra i suoi lati deboli soprattutto in fase di scrittura, con una eccessiva frammentarietà del luogo dell'azione, che inficia a tratti nella scorrevolezza della storia, oltre alle ingenuità da didascalismo d'effetto cui già accennavamo, ma che dimostra, attraverso una solida regia priva di autocompiacimento, come si possa far riflettere anche attraverso l'action post-moderna.
"Il nostro amico è da solo, adesso", l'ultima battuta che si sente. Vale la pena, in un mondo così complicato, rinunciare agli inevitabili compromessi che garantiscono una certa tranquillità?
Al pubblico spetterà l'ultima parola.