Recensione L'angelo sterminatore (1962)

Il capolavoro del surrealismo firmato da Luis Buñuel.

L'avvento dell'agnello

Un ventaglio di temi, emozioni, provocazioni, simbolismi, da cui alla fine è particolarmente difficile tirare le fila giungendo a conclusioni che non trascurino nulla di quanto è stato messo in gioco e rappresentato. In breve tutto questo è L'angelo sterminatore, opera di Luis Buñuel, uscita nel 1962, che rappresenta uno dei capolavori della corrente surrealista, nel quale si mescolano componenti narrativo-strutturali estremamente eterogenee ma ben coniugate se guardiamo al tutto come un grande insieme di messaggi, che trovano la loro perfetta espressione in una messa in scena esemplare, che si accosta allo spettacolo teatrale ricalcandone i ritmi e finanche determinate tematiche.
Ogni cosa si sviluppa attraverso una situazione che sembra essere solo un pretesto, per mettere alla prova un gruppo di personaggi i quali sono chiamati a incamminarsi lungo un percorso catartico che potrebbe portarli alla salvezza, definitiva o temporanea, non ci è dato saperlo.

Un gruppo di ricchi borghesi, al termine di una cena, scopre di essere prigioniero della casa e non riuscire ad uscire dalla stanza ove si era svolta la cena. Dal punto di vista figurato, ai personaggi vengono violentemente sbattute in faccia le proprie debolezze e, allo stesso tempo, viene messa in evidenza la decadenza di una classe che, allorché viene eliminata la "forma esteriore", si rivela vuota di valori; i diversi stereotipi di personaggio si muovono sulla scena (un grande salotto) che è il palcoscenico sul quale prende luogo un dramma che è esteriore, perché coinvolge i rapporti interpersonali, ma anche interiore nella misura in cui ogni borghese, di fronte alle inedite circostanze che il destino, o un'entità superiore, o quant'altro (e questa è un'altra importante chiave di lettura della pellicola, anche se difficoltosa da risolvere) gli pone davanti, reagisce in maniera inconsulta, mostrando a tutti il proprio lato più aggressivo e animalesco.

Il regista è un burattinaio che richiama alla nostra attenzione, a un tempo l'aspetto puramente narrativo, mentre ad un altro "stacca" sugli elementi simbolici che dal punto di vista filmico acquistano vita propria nelle ipotesi e negli sconvolgimenti emozionali che provocano nel gruppo di uomini e donne, preda di qualcosa di invisibile e proprio per questo incombattibile. Tutta la vicenda è una grande metafora, ed anche per questo motivo la sorprendente risoluzione finale lascia un fastidioso e persistente senso di sospensione, e la mancanza di una fine vera e propria è quello che più colpisce.

Un classico quindi, che ogni cinefilo che si rispetti non può non aver visto; un'opera che coniuga felicemente forma e contenuto, mantenendo un ritmo alto seppur nell'assoluta unicità di ambientazione e nei lunghi dialoghi, e proponendo soluzioni stilistiche d'avanguardia, che la consegnano di diritto alla storia del cinema.