Recensione Happy Tears (2009)

L'intento del regista Mitchell Lichtenstein in Happy Tears è quello di mirare al cuore del pubblico facendoci ridere, piangere, coinvolgere o intenerire a seconda delle situazioni mostrateci così per raggiungere lo scopo butta nel calderone un pout-pourri di ingredienti che purtroppo mal si amalgamano tra loro.

Una famiglia come poche

Jayne e Laura sono due sorelle appartenenti a una delle tante famiglie disfunzionali che popolano il nuovo cinema indie americano, per intenderci quello che va per la maggiore al Sundance sfornando ogni anno giovani eccentrici autori. Laura è la sorella più responsabile e dotata di senso pratico, il pilastro della famiglia, quella su cui si può sempre contare. A prestare il volto al personaggio è una Demi Moore insaccata in comode camicie a quadri e pantaloni di foggia militare che, tra un impegno ambientalista e l'altro, si preoccupa di accudire il padre affetto da demenza senile (un efficace Rip Torn). Jayne è invece la squilibrata in crisi col marito workalcholic e dotata di un inconscio particolarmente produttivo che la affligge con visioni oniriche di vario tipo. A interpretarla un'irresistibile Parker Posey, capace di rubare la scena alla collega Demi Moore soprattutto in virtù delle gag esilaranti che la vedono protagonista e che purtroppo tendono a diradarsi nella seconda parte del film. Happy Tears è, infatti, una pellicola discontinua caratterizzata da un andamento altalenante e numerosi vuoti di sceneggiatura. Il regista Mitchell Lichtenstein accompagna lo spettatore in profondità fin nel cuore di questa famiglia e dei suoi problemi alla scoperta del dramma che, in un modo o nell'altro, ha segnato profondamente le due sorelle: la morte della madre malata di cancro avvenuta sette anni prima.

L'intento di Lichtenstein è quello di mirare al cuore del pubblico facendoci ridere, piangere, coinvolgere o intenerire a seconda delle situazioni mostrateci e per raggiungere lo scopo il regista butta nel calderone un pout-pourri di ingredienti che purtroppo mal si amalgamano tra loro. A risentirne è soprattutto la costruzione della psicologia dei personaggi principali che vorrebbero risultare eccentrici e variegati, ma che invece, a conti fatti, si dimostrano figurine troppo inconsistenti o troppo eccentriche per offrire ganci di immedesimazione. Il personaggio interpretato da Demi Moore, la cui ottima performance in Bobby di Emilio Estevez aveva fatto immediatamente sperare in una rinascita artistica dell'attrice che, dopo i successi degli anni '90, non era più apparsa in pellicole di alto livello, si dimostra un'occasione mancata visto che lo spazio riservato alla figura della saggia Laura è decisamente ridotto e non va oltre lo stereotipo. Più complessa è la costruzione della vera protagonista del film, la fragile Jayne. La simpatica Parker Posey viene chiamata a svolgere un lavoro schizofrenico di interpretazione che la porti a creare una figura complessa e sfaccettata, intenta a inseguire ostinatamente le proprie idiosincrasie trovando continui pretesti per abbandonarsi a fughe dalla realtà e dai problemi che affiggono il suo quotidiano: la malattia del padre, la crisi matrimoniale con un marito altrettanto eccentrico e immaturo, il desiderio frustrato di maternità.

In questi momenti è la dimensione onirica della pellicola a prendere il sopravvento, dimensione che il regista Lichtenstein dimostra di non saper gestire facendosi prendere la mano e inserendo continui tuffi nell'universo altro creato dalla mente confusa di Jayne la quale si trova a rivivere improvvisamente episodi del proprio passato o a fluttuare tra nuvole, cieli sereni e meduse di mucciniana memoria. A complicare il tutto si aggiunge una caccia al tesoro nel giardino della casa del padre di Jayne e Laura che movimenta la seconda parte del film, ma la cui presenza all'interno dello script appare decisamente immotivata così come il piccolo ruolo riservato alla sempre efficace Ellen Barkin, che interpreta l'inquietante e grottesca Shelly, capace di strappare qualche risata a denti stretti più per la propria bravura che per la caratterizzazione impostale del regista. I limiti della regia si fanno sentire tutti sia nella straniante dimensione visionaria, che rimarrà impressa più per lo stile kitsch che per i reconditi significati simbolici che contiene, che nella direzione degli attori e nelle trovate che animano il plot fino al finale prevedibilmente consolatorio che lascia aperti molti interrogativi e un'unica certezza, l'inconsistenza di una pellicola che non aggiunge niente di nuovo né all'universo indie made in USA né alla riflessione sulle dinamiche familiari.

Movieplayer.it

2.0/5