Recensione Ghost Son (2005)

Il film di Lamberto Bava intreccia i generi, passando dal sentimentale al thriller per finire sull'horror, ma è affetto da una generale debolezza d'insieme che rende il risultato piuttosto piatto.

Un bambino 'adulto'

Lamberto Bava torna dopo tempo sugli schermi cinematografici con un film che strizza l'occhio al più celebre Ghost - fantasma, indimenticabile storia d'amore dei nostri tempi, aggiungendone elementi quali l'Africa, il misticismo stregonesco e, ovviamente, un bambino che del tutto normale non sembra.
Che lo spunto di partenza sia offerto da una sua personalissima rielaborazione di uno dei più amati film sentimentali degli ultimi decenni lo afferma proprio il regista, che cerca di allontanarsi dallo stereotipo che lo vuole autore solamente di film di genere per dipingere una storia d'amore estremamente contaminata, racchiudendo ed esplicando elementi propri della sua particolare sensibilità per le storie fantastiche e dell'orrore.

Bava assembla un cast internazionale, che si fa forza di una protagonista come Laura Harring, musa di Lynch in Mulholland Drive e assoluta dominatrice della scena, come anche di due ottime spalle quali John Hannah e Pete Postlethwaite.
La pellicola la si può dividere in due parti. La prima che vede coinvolti Mark (Hannah) e Stacey (la Harring) in una intensa e appassionata storia d'amore, con lei innamoratissima al punto da lasciare tutto e seguirlo nella sua villa sperduta in mezzo alla savana. La seconda vede scomparire la figura di Mark (almeno in apparenza), morto tragicamente in un incidente stradale, e introdursi discretamente nella storia Martin, il bambino dei due, frutto di un concepimento dai contorni non ben definiti (scena tratteggiata sulla falsa riga di Rosemary's baby - Nastro rosso a New York di Polanski).
Questa separazione in due distinte unità narrative aiuta nell'analisi del film. Costruite entrambe con la stessa tonalità d'inquietudine e spaesamento, nella prima non figura nessun elemento al di fuori del reale conoscibile, mentre nella seconda la presenza di un bambino molto strano, che si pone come veicolo per altre, strane, presenze, rafforza una narrazione che balla tra il thriller puro e la tendenza orrorifica tipica di Bava.

Proprio per questo distinguersi più o meno netto, la prima parte è quella che sostiene meglio l'impalcatura narrativa e un certo discorso che il regista vuole portare avanti. Determinati elementi e particolari inquadrature, infatti, se inseriti in un campo determinato dalla normale percezione, generano un disagio tangibile e ben architettato. Soffocati, viceversa, dall'introduzione di elementi che si pongono al di là della realtà quotidiana, e che pure nulla aggiungono in pathos e costruzione di climax narrativi, disperdono la propria pertinenza ed efficacia.
Questo contribuisce ad un drastico calo della tensione e dell'efficacia della pellicola, che, pur non abbassandosi mai al livello della noia, non riesce più a risalire la china, e si adagia stancamente in una storiella d'appendice, tra madri disperate e figli posseduti.

Se aggiungiamo una sceneggiatura piuttosto debole e un montaggio approssimativo (che fa susseguire il giorno e la notte, casualmente, senza soluzione di continuità) abbiamo il quadro di una pellicola riuscita a metà, che non dispiacerà ai fans del genere e, in particolare, del regista, ma che ha poco da dire al resto del pubblico pagante.