Recensione Il figlio (2002)

I Dardenne sembrano discostarsi leggermente da un'analisi incentrata sul mondo del lavoro e le conseguenze dell'industrializzazione (e postindustrializzazione) sul soggetto sociale per avvicinarsi all'insondabile.

Le fil(s)

Olivier nella sua falegnameria addestra alla professione un gruppo di ragazzi. Tra questi giovani c'è Francis, che anni prima aveva ucciso suo figlio. Il figlio è il terzo lungometraggio di finzione dei fratelli Dardenne dopo La promesse e Rosetta e prosegue idealmente l'esplorazione degli argini e delle derive della società occidentale del Novecento. Al "centro" (ma décadrée) è ancora un'umanità marginale e dolente che sperimenta il mestiere di vivere: come infatti la giovane Rosetta (protagonista dell'omonimo film Palma d'oro al festival di Cannes 1999), Olivier (Olivier Gourmet, premiato miglior attore a Cannes 2002) è corpo della sofferenza, corpo martire della contemporaneità. Mentre quella accusava lancinanti dolori al ventre, il capo della falegnameria soffre alla schiena: entrambi sono preda di un male sembra essersi definitivamente incarnato e disceso nel mondo.

Dopo aver ragionato per anni di documentarismo militante nei quartieri operai del Belgio sul binomio lavoro-identità sociale (tema peraltro ampiamente esplorato anche in La promesse e Rosetta e che qui si affaccia quando Olivier chiede al ragazzo di scrivere le iniziali del proprio nome e cognome - chiaro riferimento all'identità - sugli attrezzi da lavoro per differenziarli e quindi renderli riconoscibili rispetto a quelli altrui) i Dardenne sembrano discostarsi leggermente da un'analisi incentrata sul mondo del lavoro e le conseguenze dell'industrializzazione (e postindustrializzazione) sul soggetto sociale per avvicinarsi all'insondabile. E' questa un'operazione che rischiosa se si accetta di adottare (come da sempre i due fratelli fanno) uno sguardo puramente fenomenologico sulla realtà, inciampando forse in un gradino che non c'è, indagando su un'invisibilità, un'assenza (come assente è il figlio di Olivier).

Un'assenza di musica che si vede tutta in quello stereo muto di fianco al letto di Olivier e si pone ancora come un importante mezzo linguistico che i Dardenne impiegano all'interno della loro poetica, così come l'impiego di un'inquadratura quale quella semi-soggettiva, che sta addosso (pur non sovrastandolo) al protagonista e che lo coglie mentre spia da dietro gli angoli delle strade, apre portoni, supera soglie non solo narrative ma anche di potere. Ancora di più, Il figlio ci ricorda che la macchina a mano è, prima ancora di diventare cifra stilistica di questi due autori, una questione etica, civile; riducendo (o sarebbe meglio dire annullando) i meccanismi della retorica cinematografica partono per cercare e sondare le radici del Male, dell'uccisione, della perdita di un figlio.

Luc e Jean-Pierre Dardenne provano probabilmente a trovare la risposta partendo dall'Albero del Male e dalla sua composizione primigenia, materiale: nel legno, che è uno, ma che finisce col diversificarsi, tipizzarsi, moltiplicarsi, proprio come molteplici sono i mali, ma mantengono forse una genia comune. Non vogliono spingersi "oltre", poiché come Olivier andrebbero incontro allo scacco. La sete di conoscenza del padre falegname va verso il fallimento, così come la possibilità di misurare al millimetro il mondo, le distanze tra gli enti fisici: anche diventando il tutore di Francis, Olivier non otterrà la risposta che cerca e, anzi si troverà a portare in spalla delle assi di legno (che paiono davvero delle enormi croci) assieme al bambino omicida. Il Male risulta alla fine inspiegabile. Il pedinamento, l'avvicinamento della macchina da presa nei confronti dei protagonisti sembra essere così l'approdo linguistico a cui i Dardenne giungono per manifestare la continua tensione verso il la realtà e il vero e dichiarare finalmente l'irraggiungibilità delle cose.