Recensione La schivata (2003)

Attraverso lo "strumento" teatro permette ai suoi ragazzi di lottare davanti ai palazzi grigi e di esprimersi. Grazie all'opera di Marivaux, infatti, il regista ci invita a condividere la vita di questi adolescenti della periferia parigina con il loro gergo, il loro sistema di valori, il loro immaginario.

Teatro nella banlieue

Un gruppo di adolescenti della periferia di Parigi prepara lo spettacolo Il gioco dell'amore e del caso di Marivaux. Il quindicenne Krimo, compra la parte di Arlecchino da un compagno sperando di conquistare la ragazza di cui si è innamorato, la bellissima Lydia. Anche se interessata, Lydia è confusa e poca sicura dei propri sentimenti. La poesia del teatro aprirà nuovi e migliori orizzonti? In che misura i luoghi opprimono le scelte e i desideri? Con uno sguardo attento, Kechiche descrive il quartiere con le parole di chi lo vive e lo sente.
Lydia ha finalmente il suo costume. E' felice. La parte la sa benissimo. Non le interessa quello che gli altri pensano e dicono. Lei è pronta ad "uscire da sé". Da se stessa e dal quartiere, che opprime e condiziona. Che ti tiene legato con le catene alle panchine dei giardini. Il quartiere che non fa sognare. Che non fa guardare all'orizzonte. Invece con il costume/teatro puoi sognare. Puoi viaggiare nel tempo. Puoi conoscere nuovi luoghi. Puoi esprimerti.

Al suo secondo lungometraggio, Abdellatif Kechiche fa parlare gli adolescenti. Attraverso lo "strumento" teatro permette ai suoi ragazzi di lottare davanti ai palazzi grigi e di esprimersi. Grazie all'opera di Marivaux, infatti, il regista ci invita a condividere la vita di questi adolescenti della periferia parigina con il loro gergo, il loro sistema di valori, il loro immaginario. Ma ci invita anche a riflettere. Gli adolescenti hanno sempre bisogno, in questo caso più del solito, di parlare e di dire come la pensano. Lo sa molto bene Krimo, che è impacciato ma ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti per Lydia. L'innamoramento è un dettaglio: uno sguardo o un sorriso.

Descrivendo la quotidianità della periferia multietnica, Kechiche si allontana dai "cliches" offensivi che presentano gli adolescenti solo come vittime o delinquenti. Il suo sguardo è attento e corretto. Rappresentativo. O meglio: sguardo come rappresentazione della rappresentazione. Il teatro, non solo è la finestra che fa respirare, ma risulta essere la chiave di lettura dell'intero film. Una vera contaminazione. Costruito sui dialoghi, infatti, il film di Kechiche, è metateatrale. La parola è aggressiva, violenta, volgare, ma genuina. Il linguaggio in questo caso è un codice comunicativo. Qualcosa che si sente (apparenza) ma che nasconde spesso timidezza e fragilità (realtà). La macchina da presa insegue le situazioni. Gli spazi sono scenari. Non c'è mai una vera e propria azione. I ragazzi parlano ma sono fermi nei luoghi e tutto avviene sotto i nostri occhi. Come a teatro. Non ci sono mai soggettive. La musica che ascoltiamo proviene dalle radio, non è mai extradiegietica. Lo sguardo di Kechiche è esterno. Sulla storia, mai nella storia. La sua rappresentazione è totale, unisce la dinamicità dei dialoghi alla staticità dei luoghi/azioni.

Lo spettacolo finisce, grande successo. Con esso anche la descrizione. Nelle ultime due sequenze il teatrale (palcoscenico) lascia spazio al filmico (set). La prima canzone. La prima passeggiata.